Bar (versione riveduta e dinamica)



Non è la morte la condizione per il Paradiso. Basta andarsene. Al bar.
Ma al Bar non si entra. T’inghiotte se t’accetta. Ti nausea se ti rifiuta.
Il Bar non rinnega nessuno, neanche gli strombazzanti tromboni della morale.
Nel bar, le Sirene hanno nomi di femmine e i colli lunghi delle bottiglie. Ne scorgi il fondo ma niente più. Un’intuizione.
Con le sirene trascendi. Solo una è per sempre, anche se, di tanto in tanto, la tradisci.
Il padre padrone del bar è il barista. Un dio paziente e misericordioso. Nessuno come lui ascolta le tue confessioni.
Al bancone ci fai tutto. Bevi soprattutto ma non solo. Scopi. Leggi e quisquigli.
Parli, alle volte. Dopo una venuta o al cambio d’un bicchiere.
Parlare è una forma di lettura. Al posto dei libri le persone.
Il bar è un paradiso che brucia mentre scende giù per la trachea. Indigesto, alle volte.
Il bar. Il barista. Il popolo di ‘onesti’ ubriaconi.
Che non si creda che l’ubriacone beva. L’ubriacone s’ubriaca, di che cosa è scelta sua e prima di lui di chi lo sa.
Il Bar è un paradiso pulsante. Silenziosamente autoritario. Apparentemente anarchico.
In questo Paradiso non sole gioie. La gente s’illumina a intermittenza.
Sta salendo una certa afa.
Paradiso si diceva ?


Fine
JL

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