Gli operai del bere


 
Spiriti giovani. Immortali, in un secondo che parla d’infinito.
La promessa. Non mantenuta.
Musica random porta via, per un istante, dal luogo di lacrime e condizionali.
Ci ritroviamo.
Ancora.
Come sempre.
E’ da noi.
Una penna, un bicchiere e ciò che resta di una delle mie facce.
Tutto il resto di fianco. Tutto il niente seduto sulle ginocchia.
La solita goccia che, per l’appunto, gocciola. Caracollante ubriacona, lei per prima, nella propria disordinata caduta, scivolata, di stile e tutte cose.
La barista rivolge parole confuse, per natura. Un’espressione l’allontana.
Un amico poggia una mano sulla spalla.
Una cagna inizia a strofinare l’argano, più un cerca d’un decione pro pancia piena, che di una fuga nell’insicuro piacere.
La Cadillac è guasta ed i dollari, nelle tasche degli odiati colletti. Bianchi, neri e gialli.
La mia penna non è razzista. Non è rabbiosa. Oppure lo è, più di tutti. Tutti pedoni. Tutti bersagli. Di lacrime e pugni ed abbracci sanguinanti.
I bicchieri si rincorrono. Fottutamente uguali, per Dio.
Le gocce, gocciolano. Fredde e perfette e...
Lacrime sgualdrine, di un dolore pulsante, infaticabile ed amplificato.
Costante nei giorni, sempre uguali, di una vita che insegue la propria fine sin dal proprio inizio.
Una carezza in uno schiaffo. Uno sguardo in un istante. Pareti roteano. Prigioni invadibili.
Il cuore batte. Per forza d’inerzia. Muscolo involontario, primo carceriere di uno spirito tanto volenteroso quanto incostante. Volere è potere ma mi son concesso solamente di poter volere. Perdente per natura ma senza classe ?
L’ultimo quarto di dollaro. Mi allungano la brocca della falsa-pietà.
In questo mondo, troppo buono è falso. Chi ti pugnala, per certo, ci impiega il viso o, in assenza, il braccio. Ma quanti fantasmi muovono il carrozzone del falso buonismo. Falso perbenismo. Carnevale di mascheroni e brutture. Ed ormai non ce ne ho più, di voglia e forza.
Mi ci abbevero, dell’ultima brocca. Assetato più per concetto che per bisogno.
Mi ci abbevero senza badar all’etichetta. Avido, quello sì. Che l’avidità la condivido con gli uomini.
Avido. Poco o nulla di ciò che bramo ha prezzo e vetrina, eppure resta schiavo dell’eppure.
La barista mi sbatte fuori. Un bar d’ubriaconi. Colui che meglio si tiene.
Sbattuto fuori. Regalo tristezza ai clienti, così mi dice. Atterro su piastrelle scostate l’una dall’altra. Reciproca riluttanza alla vicinanza.
Non lo vedo in faccia.
Sopra la mia, di faccia, ci passano le sue, di scarpe.
Belle scarpe, bel vestito. Bella figura. Bel colletto.
Forse è una polo.
Magari una Lacoste.
Potrebbe essere una t-shirt ma forse sotto c’è una canotta.
Il suono. L’automatismo a chiudere la ferraglia dei sei zeri. Il click che non obbliga la testa a carpiati per controllarne l’effettività.
Ore 12.00 è finito il mio turno. Ritorno alla penna. Al sole. Al parco. A tutto ciò che mi compete. A volte
Ore 12.00 pausa pranzo. Comincia l’altro turno. Il suo
Bar d’ubriaconi a ore. Ubriachi della vita. Dalla vita. Per la vita.
Il sobrio del barista mai si vede. Miete il conto a fine giornata, quando si chiudono gli occhi, in un sorriso di resa, tra le lacrime dei pochi, stolti, aficionados.

Fine
JL


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