Quella volta che sono scappato, correndo a perdifiato, perché la folla impazzita voleva uccidermi e la Madonnina del Duomo piangeva Tavernello
Ero giunto al campo di calcio. Il solito anticipo da atleta serio. Atleta e serio, altre due cose
che non ero mai stato.
Parcheggiai la macchina e mi avviai verso gli spogliatoi.
Prima passai innanzi alla reception dove Ahmed, il gestore egiziano del centro,
stava chiacchierando con qualche connazionale a proposito di divinità
animalesche morte ormai da troppo tempo affinché la discussione entrasse nel
vivo.
Gli feci un cenno di saluto con la mano e lui rispose
dilatando gli occhi.
Non ebbi neanche bisogno di sprecare una domanda.
‘Spogliatoii de quindisci’ – Mi disse.
Gli feci un altro segno con la mano.
Mi voltai in direzione del ‘de-quindisci’.
-So cosa state
pensando e avete ragione. Avrei potuto ricordargli come il ‘de-quindisci’ non
fosse un fottuto numero in nessuna cazzo di lingua, neanche quella dei faraoni
morti.
Tuttavia pensai che mi
sarebbe piaciuto parlare l’egiziano come lui reinventava l’italiano e così mi limitai
ad accennargli un sorriso accompagnandolo con un semplice cenno della mano.
Globalizzazione, così
si dice.-
Spalancai la porta dello spogliatoio e venni investito da un
odore, un misto di afa milanese, sudore e urina mal versata , che stuprò le mie
narici. Mi feci forza, strizzai un istante gli occhi e mi rituffai nell’atmosfera
cameratesca. Appoggiai il borsone sulla panca e salutai gli altri.
C’era il mio amico Jay
Cassevetz una mezz’ala di origini francesi, veloce e ficcante.
C’era il portierone Angelo
Taglialatela una saracinesca ben piazzata per terra.
Non mancava di certo il difensore Tom Bryce Howard uno scozzese con l’amore per la sangria. Già..irreale.
Per l’occasione si erano riuniti anche alcuni amici che di
solito bazzicavano ben altri palcoscenici.
I più li conoscevano come ‘I birbanti’. Io avevo avuto modo di frequentarli singolarmente e
così venni a sapere i loro veri nomi.
C’era il possente stopper Nicolò Riboni un’ex giocatore di lacrosse dalle dimensioni taurine.
Basti pensare che viveva con i genitori ma che questi lo c
ostringevano a
dormire in una gabbia di adamantio rinforzata.
C’era il centrocampista metodista Luigi Leanza. Un uomo
d’altri tempi mansueto a un’occhiata superficiale ma in realtà fottutamente
psicopatico. Pronunciava solamente sei parole:’Allora, perché ci stai mettendo tanto ?’. Le pronunciava a domanda
o risposta di qualsiasi cosa gli venisse posta ad attenzione. Portava il numero
di maglia nove e tre quarti e il suo soprannome era ‘L’Imbrattafogli’.
A completare il team di beoni c’era la mente da cui tutto il
progetto ‘Birbanti’ era partito, Alexander ‘Scheisse’ West-inthe-Wood.
Un ala dribblomane con la passione per Garrincha dal quale aveva preso
l’abitudine di sgargarozzarsi una bottiglia di liquore pakistano prima di
scendere in campo. Non c’era da stupirsi che riuscisse a disorientare gli
avversari. Aveva un ‘ottima tecnica di base ed era sicuramente un elemento di prim'ordine nonostante una condizione fisica precaria e un temperamento
difficile. Celebre furono le sue prime parole quando, rivolto all'infermiera
subito dopo essere stato messo alla lue da quella Santa dona di sua madre, eslamò:
‘Cazzo guardi ?...’
Tutti avevano fatto la conoscenza di tutti. Il tempo di due
battute su qualche fighetta matta
(modo gergale di definire le angelicate creature stilnovistiche con le quali
eravamo soliti trascorrere i nostri attimi migliori) e qualche minuto per
cambiarsi.
Eravamo in campo.
Andava in scena la finale di un torneo tra compagnie
teatrali che vedeva opposti noi ‘Birbanti’
ai simpatici mattacchioni degli ‘Hypocrites’
una scatenata banda di cippirimerlo che stava per portare in scena la propria
versione di un film americano basato sulla vendetta. Ovviamente il nostro scopo
era quello di mandarli in scena con un autentico sentimento di vendetta e far
si che più che il cinque novembre si ricordassero dei cinque gol che stavamo
per rifilargli.
L’arbitro, il Signor Muzio
Scevola, da Brindisi in provincia di Valle d’Aosta, fece salutare le
squadre. Salutò a sua volta i capitani e vigilò sulle operazioni di spartizione
di palla e campo. In sede di commento il noto Ponzio Pilato per Radio
ManàManà.
Il calcio d’inizio spettava a loro. Noi ci posizionammo in
campo. Non contava vincere o perdere, quanto giocare bene, dare spettacolo e
lasciare entusiasti gli spettatori. Ho detto una bugia, vincere non è
importante è l’unica cosa che conta. Noi lo avremmo fatto dando spettacolo.
Quando la partita era giunta al suo primo minuto uno dei
nostri, Riboni credo, calciò
violentemente la palla in fallo laterale.
Lo guardai inebetito cercando di capire il perché del gesto.
Riboni mi squadrò
con sguardo torvo, furente, rabbioso. Mi guardai attorno e mi resi conto di
come tutti mi stessero fissando. Tutti quanti. Strangolati da una furia cieca e la voglia di saltarmi addosso.
Iniziarono ad avvicinarsi formando un cerchio per non lasciarmi possibilità di
fuga. Una goccia di sudore mi scese giù lungo la schiena.
Mi domandai cosa potessi aver fatto, questa volta, ma non
c’era tempo e così iniziai a scappare all'impazzata forzando il cordone.
E loro dietro. E tutta la gente del centro dietro. Anche
Ahmed dietro. Tutti in silenzio sbavando rabbia e odio.
Correvo verso il campo a undici che confinava con un parco.
Man mano che sfrecciavo la folla degli inseguitori aumentava. Per ora riuscivo
a tenerli a bada ma stavo correndo al limite delle forze e non sapevo quanto
ancora avrei resistito. Il mio vantaggio non superava i dieci metri.
Finalmente arrivai al campo a undici dov'era in corso una
partita. Come entrai in campo, sfrecciando come un forsennato, la partita si
arrestò e i ventidue calciatori più le panchine tentarono di braccarmi e
corrermi dietro. Arrivato al confine del campo saltai sulla staccionata.
Per fortuna andò bene. Ero nel parco.
Mi fermai un attimo per respirare. Tutto il tronco era dilaniato
da dolori atroci. La paura e l’adrenalina aumentavano il carico.
‘Spint’. Un
proiettile scheggiò l’albero su cui ero appoggiato. Le schegge si infilzarono
nella mia spalla destra. Cercai di resistere alla cecità che il dolore tentava
d’impormi e strizzando gli occhi tentai di capire da dove fosse arrivato il
colpo.
‘Spint’.
‘Spint’.
‘Spint’.
Non c’era tempo. Ricominciai a correre. Percorsi il parco nel
verso opposto e uscii da quello che doveva essere l’ingresso. Avevo alle
calcagna una folla che era grossa il triplo rispetto all'inizio della caccia. A
ogni passo la folla s’ingrossava e io stavo continuando a perdere sangue.
Passai per Lambrate. Raggiunsi Piola e mi rifugiai un paio
di minuti in una chiesa ma anche il prete sembrava posseduto e invece
dell’ostia tentò di addentare il mio corpo. Povero Cristo.
Ripresi a correre. Ora avevo anche il clero che mi dava la
caccia. Apertamente.
Poliziotti e carabinieri sparavano all’impazzata e per una
volta nessuno li accusava di essere dei fascisti.
Mamme e bambini. Anziani e Padri di famiglia. Comunitari e
non. Bianchi e neri. Interisti e Juventini. Tutti dietro di me a perdifiato,
rabbiosi e brandendo in mano qualunque cosa nel tentativo, sempre più probabile,
di farmi la pelle. Aggirai C.so Buenos Aires costeggiandolo tramite le viuzze.
Adesso ero inseguito anche da tutti i ghetti di questa
Milano piangente. Occhi a mandorla e Django Unchained mi inseguivano con le
loro varie scimitarre e l’adrenalina amplificata dalla coca.
Passai attraverso i giardini di Palestro dove il vecchio
barbone ubriaco che aveva tentato di accoltellarmi e che io avevo ucciso nel
finale de ‘Il sangue della giungla’
mi si palesò innanzi ricordandomi come non fosse solo il postino a suonare due
volte.
Sullo slancio della corsa compii un ampio balzo e formando
un pugno con le mani strette gli fracassai il cranio. Uno stronzo in meno.
L’orda era sempre più vicina e io avevo sempre meno energie.
In prima fila i miei compagni, più che Birbanti,
proprio un po’ stronzi..
Uscii dal giardino e mi ritrovai in Corso Venezia. Arrivai
in Piazza San Babila e corsi per arrivare il prima possibile al Duomo. Da lì in
poi, dopo esser salito in cima, avrei avuto una vista della folla dall'alto
Avrei potuto recuperare il fiato e ragionare sul da farsi.
Nel frattempo un proiettile mi prese di striscio all'altezza delle costole, mozzandomi il fiato in gola. Non potevo permettermi di
rallentare. Mancava poco ma non sarebbe stato facile aggirare i controlli del
Duomo e riuscire ad arrivare in cima.
Allora decisi, una cinquantina di metri prima di arrivare a
destinazione, di buttarmi dentro la vetrina di un vecchio ristorante ormai
abbandonato. Entrai e scorsi una porta. Dopo essere passato mi ci barricai
dentro.
Mi accorsi solo adesso che conoscevo quel posto e che la
scelta di rifugiarmici dentro non era stata casuale ma semplicemente inconscia.
La porta che mi separava, ancora per poco, dalla folla dava accesso a una
stanza, quella in cui mi trovavo, che aveva anche un’uscita sul retro.
La gente sembrava talmente in preda alla follia che non
avrebbe mai pensato di sistemare un perimetro intorno all’edificio e così,
magari, uscendo dal retro avrei avuto qualche minuto di invisibilità.
Non sarei durato ancora a lungo.
Volevo lasciare due ultime righe. Sarebbero andate distrutte
con me ma era una necessità umana alla quale decisi di non sottrarmi.
Sfortunatamente l’unica cosa che trovai fu la vecchia carta di uno snack,
polverosa eppure ancora appiccicaticcia:
-10 maggio 2013 -
Milano -
Quelle che seguono sono, con estrema probabilità, le mie
ultime parole e, ahimè, mi tocca scriverle sulla carta appiccicaticcia di uno
snack.
Chiunque tu sia, fregatene del mio nome. Guarda e passa.
Questo non è tempo per noi esseri umani. Scappa, corri e non voltarti.
La ricerca di te stesso è già cominciata e non sarai mai
solo, purtroppo. Più ti avvicinerai a comprenderti e più ti osteggeranno,
finanche arrivare a ucciderti.
Non sarai mai solo eppure lo sarai sempre.
Incontrovertibilmente. Inesorabilmente. Solo.
Buona fortuna. Non esiste ma ti servirebbe. Curioso..
..Purtroppo fallirai...
**
Mi infilai la cartaccia sotto la maglietta e uscii dalla
porta sul retro. Stavo per cominciare nuovamente a correre quando mi fermai un
secondo ad assistere la folla inferocita che spingeva e premeva contro la porta
del ristorante. C’erano tutti. Persone che non vedevo da anni. Amici, Familiari.
Ero sbalordito.
Non avevo tempo e così mi ripresi e iniziai a correre verso
il Duomo. Tutti erano stati richiamati dal trambusto e dal desiderio di farmi
la pelle e ora il Duomo era rimasto senza sorveglianza. Feci per entrare quando
una voce spaccò il silenzio in cui mi stavo celando.
‘Eccolo. Ehi, Ehi.
Eccolo è qui.’
Un bambino mi indicò richiamando l’attenzione generale con
la sua vocina stridula. Folla che proprio questa volta decise di dar attenzione
alla voce del bambino. Quando si dice l’ingenuità dei pargoli. Tirai un calcio
a quel piccolo stronzo il quale venne sfortunatamente e prontamente rimpiazzato
da un delatore peggiore.
‘Sì presto accorrete è
proprio lui l’ho visto io. Maledetto. Corriamo. Prendiamolo.’
Un uomo distinto, in giacca e cravatta aizzò la folla ma se
ne guardò bene dal prendere parte alla caccia all'uomo Doveva essere un
Ministro dell’interesse. Un santone dell’armiamoci e partite.
Ce li avevo addosso di nuovo. Corsi su per le scale. Di
nuovo. Una serie infinita di chiocciole.
Finalmente ero su. Ma non sarebbe bastato e così sfidai le
mie vertigini e mi arrampicai finché non fui in cima al Duomo al cospetto di
una Madonnina silenziosa e ricoperta d’oro. La folla era tutta sotto di me. Vastissimo
pubblico di una rock star ormai caduta in disgrazia.
Mi ero messo in trappola da solo. C’ero andato così vicino
ma niente di più. Cosa mi rimaneva da fare ?
Guardai con aria interrogativa la Madonna ma ella si limitò
a piangere un paio gocce di sangue che poteva benissimo essere del Tavernello.
Sotto riuscii a distinguere i mie ex compagni Birbanti. Riboni, Gigi e Alex. I nostri sguardi si incrociarono
per un secondo. Avrei fatto i conti anche con loro. Soprattutto con loro.
Non gli restava che aspettare e a me non restava che
decidere il momento della mia uscita di scena. La folla aveva vinto, come
sempre, facendo fronte comune Come sempre una vittoria dal sapor di sconfitta e
dal retro gusto di presa per il culo.
Guardai la
Madonnina ma Lei continuò a tenere lo sguardo ritto in
avanti. Pensai a quella ragazza che tanto mi piaceva e che tanto amavo. Quell'unica cosa buona che ero stato in grado di combinare. Non ero riuscito a scorgerla
tra la folla. Forse lei stessa aveva anticipato il fattaccio e se n’era andata.
In silenzio nell'indifferenza di una lacrima su questo mondo bacato. Non
l’avrei dimenticata mai. Non l’avrei compatita o biasimata. Avevo avuto più di
quello che meritavo e lei mi aveva già resuscitato una volta. Il mio cuore e
tutto ciò che amavo della mia vita rimanevano a lei come pegno di ciò che fu e
che per me sarebbe continuato a essere.
Forse la folla non aveva tutti i torti e io non potevo
sottrarmi o farla ulteriormente aspettare.
Avevo un appuntamento con la morte altri potrebbero
chiamarlo Karma.
Del resto uno nella morte ci entra. Ci si tuffa o ci si fa
prendere. L’uomo e la morte. Una posizione sessuale. Chiamiamola Karma-sutra.
Mi misi in piedi dando le spalle alla piazza. Stampai un
bacio alla Madonnina. Eggià…era proprio Tavernello. Che poi..una statua, cosa vi
aspettavate ?
Mi lasciai cadere all'indietro.
Una sensazione indescrivibile.
Sospeso sul filo del tempo e dello spazio.
Compressione e dilatamento.
L’aria. La velocità. L’adrenalina. La paura. L’eccitazione.
..Crank..
Il suolo.
Ho corso veloce ma non abbastanza.
Il tempo, questo tempo, ti fotte. Non oggi e forse nemmeno
domani ma presto o tardi e per tutta la vita.
Sono morto e mi sveglio sudato nel mio letto. Comincia un
nuovo giorno nel mio mondo di Santi, di ladri e di truffatori.
Quasi, quasi..torno a fare un giro sul Duomo.
Fine
JL
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