Leluche: i quattro cavalieri dello scopone scientifico




Una mano. Un’ultima mano.
Curioso, come la mente si perda nei ricordi, durante i momenti senza seconde possibilità.
Restavano: un tavolo, quattro contendenti e la gloria.
La gloria è la sola a poter sopravvivere alla morte. Premio succulento.
Quasi inconsciamente feci una panoramica dei miei avversare e così mi riebbi da quel mulinello di sudati pensieri.
Alla mia destra lo sfidante algerino: Rabrul “Jamal Jeffreys” Jebral.
Persona particolare. Storia particolare.
Rabrul nasce come addomesticatore di cammelli mongoli. In seguito ad una, non meglio precisata, vicenda legale (pare avesse molestato una cammella palpandole le gobbe) venne allontanato dal posto di lavoro. Caricato del disonore del proprio villaggio e senza mezzi per mantenere la numerosa famiglia che si era costruito nel tempo, il prode Jamal decise di salpare dal mar Nero a bordo di una zattera che chiamò “Black Blade” (Lama Nera). Con lui, solamente: suo zio Nerone, un ex politico dalla personalità nera e dal carattere fumantino. Inoltre, ad accompagnarlo, c’era anche il fidato amico Yoshimitsu, un ex monaco tibetano (impazzito) che si rilassava (e, a quanto pare, faceva rilassare lo stesso Rabrul) rollando spinelli farciti dei propri peli pubici.
Dall’altra parte del tavolo si trovava l’avversario, probabilmente, più ostico: Gellicus Melis Von Cazzenberg. Arcigno e solido come solo i crucchi mangia crauti. Un uomo che faceva della scienza applicata al gioco e del gel per capelli al gusto di mela verde le sue armi più micidiali. Metà degli incontri li aveva vinti seducendo gli avversari grazie al suo irresistibile sapor di mela verde. Un uomo sugoso insomma. Partecipava al torneo per vanvera e per poter sfoggiare, orgoglioso, la sua nuova blusa da marinaretto.
Dinnanzi a me, l’avversario, decisamente, più temibile. Sorridente come un orsetto lavatore prima che ti fotta le ciliege. Attendista come un koala appeso all’albero di eucalipto. Leggiadra come una farfalla. Pericolosa come un pinguino incazzato. Signori e Signore, accompagnata da sua marito: Jean Paul, dal padre Fra Tac e da mamma Seur. Con al  seguito i figli: Jean Pierre, Jean Jacques, Jean Marine, Gustave, Flaubert, Tibald e Marrilon. Da Lione, Francia: Leluche.
Come già detto era la mia avversaria più temibile. Parlava a destra e colpiva a sinistra. Commentava in sala interviste e mangiava una baguette in sala executive. Firmava autografi in camera da letto e partoriva un altro marmocchio mentre vinceva un torneo, inaugurando la nuova linea Tav di Lione. Leluche era la pro-zia di Chuck Norris. Insomma, come dicevano i dietologi: affrontarla avrebbe comportato il dispendio di svariati cazzi senza zucchero.
Come se il quadro appena accennato non bastasse, la situazione era tirata al limite dell’insopportabile.
Leluche era a 18 punti, ancora 3 e avrebbe portato il trofeo nella sua amata Lione.
Gellicus seguiva la francese a stretto giro di posta, visto che aveva totalizzato 17 punti.
Io a metà classifica vivacchiavo con 15 punti mentre il croupier mi riprendeva dicendo che ero intelligente ma dovevo applicarmi maggiormente.
Rabrul, in chiaro stato confusionale, annaspava con 7 punti continuando a lamentarsi con Yoshimitsu riguardo al fatto che fosse praticamente impossibile vincere, visto che continuava a finire in prigione. Nessuno ebbe il coraggio di contraddirlo.
Insomma, avevo 24 anni e 10 dollari in uno stato nel quale si campava con rubri spartani.
Era il momento di svoltare o farselo buttare in culo dalla vita una volta per tutte.
Erano le 23.15 del 22 maggio 2012.
Eravamo nella ridente tintoria “Tinto il tintore che s’intende di tetti ritinti”.  Mino cantava il pezzo che lo aveva reso famoso in tutto il mondo: la sua versione di “I don’t wanna miss a thing” eseguita a cappella e con i rutti.
Tutto era perfetto o semplicemente era, poco importava, tant’era. Tanto bastava. Ero venuto per vincere e sarei morto provandoci.
Il croupier, l’abile Cochi Marianas, dopo l’enfatica presentazione conclusa con un rutto che neanche un vichingo, diede le carte.
Mano dopo mano si susseguivano colpi d’alta scuola. Il mazzo centrale calava e le carte dinnanzi ai giocatori aumentavano.
All’ultima mano il delirio.
Rabrul ordinò il cocktail a causa del quale era stato allontanato da tutti i casinò della contea: menta piperita, spruzzata di vodka e succhino di frgolette di bosco con ciliegina annessa. Ovviamente il tutto da bere slappandosi le labbra con la lingua come neanche un trans di Marrazzo.
Gellicus perse il controllo, così, usando la propria rinomata, furbizia crucca, convinse Rabrul a giocare al braccio di ferro polacco. Risultato: Rabrul all’ospedale e Gellicus allontanato dal presente torneo e da quelli futuri di braccio di ferro.
Rimanevamo Leluche ed io. A dire il vero rimaneva anche Cochi coi suoi rutti micidiali ed il suo modo inconfondibile di distribuire carte a destra e manca. Talvolta anche agli spettatori.
A Leluche mancavano solo 3 punti ma ne aveva già messi due in saccoccia. Il settebello ed una scopa conquistata su assist di Rabrul che con l’aria del sapiente aveva lanciato alla distratta, sul tavolo, un quattro (l’unico in suo possesso). Il beota era sicuro, grazie a calcoli non meglio precisati, che Leluche non ne possedesse neanche uno. Ovviamente Leluche possedeva tutti gli altri, restanti, quattro.
Comunque…io avevo recuperato gran parte dello svantaggio e mi trovavo a meno uno da Leluche e a meno due da una vittoria storica. Restava da assegnare il punto della primiera e poi avrei dovuto inventarmi qualcosa per fare una scopa. Le possibilità di successo erano minime, per non dire una chimera che è un modo figo e da poeta sfigato di dire che ce l’avevo, su per giù, spianato nell’ano.
Riuscii con mossa sapiente e, promettendo a Cochi un regno nel quale i suoi rutti sarebbero stati decantati e non criticati e scacciati, ad accaparrarmi l’ultimo 7. La primiera era mia.
Come cazzo potevo far cadere quella vecchia e sagace volpona di Leluche in un cul de sac che mi consentisse un’insperata e leggendaria vittoria ?
Tentai il tutto per tutto. Chiesi il time out a Cochi che ovviamente, essendo la mia ganza, lo concesse (anche se non previsto da nessun regolamento -ufficiale o clandestino- inerente al gioco della scopa).
Con una scusa scivolai alla sinistra di Leluche e, a metà tra maestria e paraculaggine, iniziai a dirle parole caso: “baguette, merci, gentil, me oui, ma va là, vièn aquì”.
Insomma, esterrefatta e credo sedotta, riuscì a portarla nella zona bar dove le feci ingerire svariati shot di assenzio. Ridevo, tra me e me, ormai sicuro di una facile vittoria. Se non che, ad una certa, un antipatico elfo che stazionava, abusivo, sulla mia spalla destra mi ricordò come anche io avessi ingerito quantità gargantuesche di assenzio. Un elfo ? Verde ? Sulla spalla ?...Cazzo, ero fottuto.
Io che pensavo di aver aggirato la linea Maginot e di aver infilato la mia baguette in un forno caldo e confortevole, mi accorgevo solo ora che Leluche mi aveva trattato come un babbà. Giocandomi come fossi un croissant e mangiandomi come un bignè. Maledetto foie gras….
Non c’era più tempo per miracoli e lamenti.
Il gioco riprese
Due carte sul tavolo: un 4 di fiori ed un due di cuori. Io avevo in mano un re di quadri. Leluche mi guardava con disprezzo barcollando dalla sua sedia. 
Toccava a lei e non si fece attendere. Gettò con sprezzo la carta sul tavolo. La carta roteò vorticosamente impedendomi di carpirne il valore. Alla fine si posò sul tavolo. Restammo tutti esterrefatti.
Probabilità ? Probabilità…
Dissi io: ”Leluche ma che diavolo ci fai con una carta probabilità del Monopoli in mano ?”
La sua risposta fu una testata.


Mi risvegliai diverse ore dopo, confuso. I postumi di una sbornia ed una piattola che mi praticava dello scialbo sesso orale.
Buttai giù un paio di moment seguiti da un golata di whisky.
Finalmente capii. Era tutto chiaro. Ma certo, ma certo.
Il torneo non si era mai tenuto. La tintoria:”Il tintore…” non era mai esistita. Ed in effetti, a pensarci bene, io non conoscevo nessuna cazzo di Leluche. Fu allora che mi accorsi che i miei quattro amici -che io avevo scambiato per gli sfidanti esteri- mi stavano fissando tra il basito ed il preoccupato, da tempo immemore.
Spiegai loro tutto quello che mi era successo e dopo un paio di bottiglie li accompagnai alla porta. Quando questa si richiuse e rimasi solo in casa, mi misi a riflettere. Niente di ciò che avevo vissuto era successo veramente. Non che fosse una novità, solo…questa volta il risveglio faceva più male. Un lacrima mi rigò il viso, sapeva di whisky.
Feci per andare a dormire. Mi svestì. Diedi due colpetti al tonno e m’infilai sotto le lenzuola. Qualcosa mi punse ad una chiappa….ravanai finché non tirai a me un bigliettino con scritto: ”Une baguette trés bonne”. Era firmato L….semplicemente: L.
Mi girai dall’altra parte del letto.
Feci un rutto, sapeva di mela.


Fine
JL

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