Half Life

“Nella fine il principio”


La fissai.
Sul volto, un misto di paura e stupore.
Aveva capito.
Alzai gli occhi al cielo.
Li chiusi.
Inspirai per l’ultima volta. Le labbra correvano veloci nella pronuncia di una preghiera che mi era stata familiare da bambino. La mente lucida e calma litigava con gli spasmi che mi percuotevano. Il sudore zampillava dalla fronte come acqua viva eppure non spegneva il colorito rosso fuoco.
Mentì.
Respirai un’altra volta, gli occhi erano due promesse di lotta fino alla fine.
Mi lanciai con un ghigno rabbioso verso il primo malvivente, quello più basso e tozzo delegato alla nostra sorveglianza. Si era girato un istante per accendersi una sigaretta e comunicare ai due compari che la situazione era tranquilla, ed io approfittandone lo colpì con un calcio nei coglioni. Si sgonfiò immediatamente ma nonostante ciò, nella caduta, gli afferrai quella testa di cazzo bruna e rotonda e gli girai il collo con tutta la forza di cui ero capace, spezzandolo. Sì sentì un crack deciso e fugace.
Il corpo steso come massa informe dinnanzi a me, la testa girata verso destra, gli occhi senza vita puntati sul muro portante della stanza celata dall’ombra.
I miei occhi si specchiavano nei suoi…in quei piccoli vetri crepati.
Com’era facile uccidere. Com’era giusto in quel caso.
Nascosi la carogna del bastardo dietro al divano. Guardai la mia famiglia, con un falso sorriso dipinto sul volto  -il classico “andrà tutto bene”-  che nessuno condivideva.
Circospetto e furtivo mi muovevo tra le varie stanze, i muscoli in tensione e la determinazione nel cuore.
Il mio sguardo fece capolino nello studio del secondo piano. Erano lì, gli altri due, seduti  con gli stivali impregnati di terra stesi sulla mia scrivania. Comodi, parlavano con voci afone.
Entrai senza pensarci due volte ed urlai: “ Giù le pistole e tutti in piedi, Signori”.
Colsi distintamente lo sgomento che s’impadroniva delle loro menti. Come bravi bambini scoperti con le mani nella marmellata, eseguirono le mie direttive.
Eccoli lì, in piedi, davanti a me. Era il loro turno di sudare come porci prima del macello.
Li fissai e chiesi il perché di quell’irruzione, di quella violenza. Si guardarono un attimo e uno dei due, il capo, mi rispose:” Perché no? Tanto ne hai a stra fottere di fottuti soldi, non doveva finire così, non doveva morire nessuno. Ci dispiace  -proseguì-  ora tocca a te, dopo a loro”.
Ingenuo che fui, invece di fare fuoco rimasi a fissarli come uno stoccafisso. Mi accorsi allora che il capo teneva le mani dietro la schiena come un calciatore durante l’inno nazionale.
Misi a fuoco troppo tardi.
Lo scagnozzo disarmato si buttò a terra dietro alla scrivania, l’altro sganciò il ferro dai pantaloni e fece fuoco. Tentai invano di buttarmi per terra, il colpo andò a segno penetrando alla sinistra del petto, 6 cm circa sotto il cuore. Provai un dolore come mai in vita mia, un dolore così pervadente da invocare la morte e attenderla come una liberazione. Eppure inspiegabilmente non ero ancora morto e la pistola era ancora salda nella mano destra.
Mi si avvicinarono compiaciuti per averla fatta franca. Il capo si chinò su di me e aperta la bocca disse.” Vattene tranquillo, hai una bella moglie e dei graziosi pargoli, ci penser….
Non finì mai quella frase, gli sparai in pieno volto, il proiettile gli bucò un occhio trapassando il cranio per terminare la corsa nello stomaco del compare che gli era dietro di un passo ampio. Morì sul colpo,il capo. L’altro con lo stomaco che sputava sangue come se ne  fosse intollerante, cadde a terra, fragoroso, lungo disteso con la testa all’altezza della mia. Capì subito, lo stronzo, che non sarebbe uscito vivo da quella casa. Gli si raggelò il sangue nelle vene e vidi balenare nelle pupille tutti i suoi rimpianti. Forse nella vita comune era una buona persona, forse aveva una famiglia, forse...Sparai…Forse no…Non più.  Punto, finito, basta.
Respiravo affannosamente, attendendo da un momento all’altro che sopraggiungesse la morte. L’unica cosa che vedevo era la mia anima nera. Mi trascinai fino alla trasmittente di uno dei due malviventi  e urlai in un ultimo alito di fiato: “ Sono tutti morti, sono tutti…sono…”.


Rimasi in coma per 48 giorni ma in nessuno di questi vidi mai la celebre luce calda e avvolgente alla fine del tunnel.
Solo freddo e quadri grigi alle pareti di un posto che non sapevo.
Mi ristabilì più velocemente del previsto, in 3 mesi ero fuori dall’ospedale e dentro una cella mt 2 x 2, in isolamento. Mi avevano processato per direttissima e condannato 2 volte per omicidio volontario. Solo per il capo della banda mi era stata riconosciuta la legittima difesa.
Non me la presi.
Fuori dal carcere, gente con cartelli di solidarietà invocava a gran voce il mio nome. Sbagliavano. Non era solo un discorso di pericolo. Disarmati e resi inoffensivi avrei potuto chiamare la polizia.
No. Li avevo giustiziati per essere entrati in casa mia e aver toccato la mia famiglia.
Era una fine che meritavo, potevo salvare senza uccidere. Non feci nessuna delle due condannando la mia famiglia ad una morte diversa solo nel nome.
Vestito di nero –unica mia richiesta- aspettavo la visita del prete. Quando questi entrò per la confessione, si lasciò scappare di essere concorde col mio operato e di compatire il mio destino. Gli risposi solo di pregare affinché non vi fosse troppo freddo dall’altra parte e per la mia famiglia affinchè riuscisse a superare quella tragedia.
Se ne andò sconsolato.
Come ultimo pasto chiesi e ricevetti: pane ed acqua. Poi al grido di:” Dead man walking” percorsi tutto il braccio della morte. Mi condussero in uno stanzino color marrone diarrea senza finestre né pubblico. Al centro una sedia come tante. Il giudice non aveva capito la mia richiesta di sostituire all’iniezione la sedia elettrica ma accertato che fosse compatibile con la donazione degli organi acconsentì. –Decisi di donare tutto ciò che potevo tranne le cornee, nessuno avrebbe dovuto più vedere quell’orrore. Mai più.-
Mi fecero sedere. Spugna bagnata in testa ed elettrodo sotto il collo.
Salutai cordialmente uno per uno i secondini e chiusi col mondo.
Azione.
Scossa.
Addio.
Mi deposero ancora fumante dalla sedia e mi infilarono in un saccone nero. Da lì via sotto 5 mt buoni di terra. Adesso iniziava la condanna vera.
Come ho già detto, non me la presi.
Avrei voluto solo avere il tempo di salutare la mia famiglia, di scusarmi con loro e dire a mia moglie quanto il suo calore, i suoi profumi e la sua dolcezza mi salvarono.
Ai miei figli avrei voluto dire che erano e sarebbero restati il cuore pulsante della mia esistenza, che ero orgoglioso di loro, che sarebbero dovuti sempre essere uomini e donne determinati, retti e sereni.
Avrei detto loro del mio rimpianto nel non poterli più consigliare. Del dolore di non poter vedere dei nipotini, di non poter leggere un’altra favola mentre addormentandosi mi stringevano il collo in un abbraccio tra le loro soffici manine.
La mia famiglia, la mia fam….


Riaprì gli occhi.
Era un sogno? Avevo dormito?
No, non stavo dormendo. Cos’era successo e perché quel mal di testa così pulsante.
Qualche istante di torpore. Un rivolo di sangue scendeva lento ed inesorabile dalla mia fronte fino ad arrivare all’occhio destro, al collo e da lì in un tuffo al pavimento. Un rumore sordo, quasi un alito leggero.
Ma certo. Ora ricordavo…
Quando erano penetrati in casa, i delinquenti mi avevano colpito alla testa col calcio di una pistola, a prima vista una beretta semi automatica.
Volsi lo sguardo a destra e a sinistra, ero ancora leggermente stordito.
La mia famiglia era di fianco a me, imbavagliata, col terrore negli occhi ma sana.
Grazie.
I tre erano dinnanzi a noi, calmi e forti del potere che le pistole gli conferivano. Calmi, troppo calmi.
Sognato o meno, importava poco. Forse quello era stato il mio tunnel verso la luce e ora sapevo, sapevo cosa fare.
Volevo farmi notare ma a causa dello straccio che mi era stato conficcato in bocca, riuscii solamente a mugugnare qualcosa . Mi si avvicinò uno dei tre, scostò lo straccio dalla bocca e mi porse l’orecchio. Era divertito, lo sentivo.
Increspai leggermente le labbra, attento a modulare con perizia quelle che sarebbero potute essere le mie ultime parole: “ portatemi nello studio, non ve ne pentirete”.
Fece per chiedermi il motivo di quella richiesta ma io annuì e tanto bastò.
Mi aiutarono a velocizzare il passo con alcuni calci e arrivati mi fecero sdraiare pancia all’aria sul tappeto.
Disposti a semi cerchio, dinnanzi a me, aspettavano intrepidi che comunicassi loro il motivo dello spostamento, sicuri che per la cortesia ricevuta avrei avanzato un’offerta vantaggiosa.
Diedi un’ ultima occhiata all’arredamento che in quel momento era un po’ meno familiare del solito. Solo un po’ meno.
Inspirai, il resto è storia:” Nessuno sa che siete qui né tanto meno, nessun componente della mia famiglia potrebbe fornire degl’ identikit per via delle maschere e delle voci modificate  -non era del tutto vero ma dovevo prospettargli la miglior situazione possibile- . Vi propongo un affare vantaggioso: in casa non vi sono che pochi oggetti e alcune migliaia di dollari, prendeteli poi seguitemi, vi porterò in un posto poco lontano. Lì troverete una cassaforte con all’interno 5 mln di dollari in contanti e altri 500 mila dollari in oro.
Ora ,certo, potete uccidermi e mettervi alla ricerca di questa cassaforte ma l’ha progettata una persona a me molto cara che lavora presso il dipartimento investigativo federale. La cassaforte è  in acciaio temperato, con cardini rinforzati e combinazione a tempo, per questo motivo si può aprire solamente ad una determinata ora e solo per 15 minuti. Ovviamente potete provare a scassinarla ma ammesso che voi riusciate a far saltare i cardini, partirebbe immediatamente un allarme silenzioso collegato col centro investigativo e avreste comunque sempre 15 fottuti min per: scassinarla, ripulirla e scappare. Io vi darò i soldi senza che voi dobbiate fare alcuna fatica ma in cambio esigo che lasciate seduta stante casa mia e la mia famiglia, senza farvi più ritorno e prendendo ,me solo, come garanzia.
Diciamo che sono la vostra polizza sulla vita”.
Il capo della banda, diede un’occhiata soddisfatta e saccente ai compari, mi osservò per un istante ancora e infine parlò: “ Non sei tanto furbo, o almeno non tanto quanto credi, caro amico. La combinazione è a tempo giusto? E si apre di conseguenza sempre alla stessa ora giusto?  -nel frattempo io annuivo in silenzio-  E allora dimmi, caro amico, chi mai imposterebbe una combinazione ad un orario così improbabile ?”
Giusta osservazione, non era uno sprovveduto, lo immaginavo.
Calmo gli risposi: “ Spesso e volentieri, per vari motivi “personali”, rincaso tardi. Diciamo che non è una cassaforte ad uso “familiare”. Che ore sono? Le due e mezza del mattino giusto -chiesi- ?  
- lui annuì-  Tra 45 min la cassaforte si aprirà, non avete certezze oltre alle mie parole ma considerando che controllate: casa mia, la mia famiglia e me, non capisco a quale pro dovrei mentirvi.
Mi osservò attento ma sempre con un’aria dissacrante negl’occhi, i secondi non passavano mai e i respiri erano lenti ed affannosi.
Poi una risata fragorosa, un applauso e tre parole: “D’accordo, va bene”.
Riprese fiato un attimo dopo per dirmi:“ bada bene e non c’è bisogno di ricordarlo, che se menti domani mattina non basteranno neanche i cucchiaini per raccattare la tua famiglia”.
Non era una minaccia, era una promessa.
Non stavo mentendo, non avevo paura, gli annuì con finta aria di distacco e la discussione terminò.
Avrei ottenuto quello che volevo, in un modo o nell’altro. Mi stava bene seguirli, era un buon prezzo per la vita dei miei cari.
Mi rimisero in piedi e beretta alla schiena mi portarono di stanza in stanza, svaligiando tutto ciò che poteva avere un qualche valore. Da lì a mezz’ora avevano finito. Uscimmo fuori di casa e ci fiondammo nella notte. Mancavano 15 minuti all’ora x, tutto il tempo del mondo, tutto il tempo.
Casa mia era al centro di una proprietà immersa nel verde, allontanatici di qualche minuto, curvammo drasticamente verso destra per seguire uno sterrato che ci condusse dopo circa 5 min di cammino ad un gabbiotto fatiscente: lo stanzino degli arnesi.
Entrati, sollevai un’asse dal pavimento, un paio di assi. Comparve allora sotto i nostri piedi, una lunga scalinata in pietra, che conduceva ad una stanza sotterranea spoglia e dall’aria stantia.
Premetti un mattone nella parete laterale e questa ruotò di 180° gradi consentendoci il passaggio verso una specie di loculo, una mini stanza che conteneva la cassaforte.
Come d‘accordi venne aperta e svaligiata.
Raggruppato il mal tolto - operazione per la quale non trascorsero più di 20 minuti- mi condussero a ritroso fuori da quelle stanze fino ad arrivare ad una radura della  proprietà dov’era parcheggiata l’auto del colpo: un’anonima city-car grigia di medie dimensioni e dalla blanda cilindrata. Messo in moto, ci facemmo ingurgitare dalla nebbia e sparimmo.

Diverse decine di minuti dopo, la macchina si fermò. Eravamo nel parcheggio ante stante un “palazzone” della periferia senza arte né parte. Era grigio, alto e slungato e constava di una decina di piani; la vernice veniva via a blocchi come pelle morta dopo l’estate.
“Strano” pensavo, che mi lasciassero vedere tutto ciò. Già…strano.
Due dei tre “compagni di viaggio” mi strinsero rispettivamente un braccio ciascuno e mi condussero in uno degli scantinati del palazzo. L’aria era ammuffita e qua e là qualche topastro
-spintosi fin lì nella ricerca di cibarie- scappava squittendo disturbato dal nostro incedere:               -divertente, essere trascinato in un luogo così poco ospitale perfino per i topi-.
La luce della luna bagnava in maniera fioca una finestrella rettangolare e rigata che dava sulla strada deserta e fradicia.
Mi fecero inginocchiare. I due che mi avevano scortato mi fissarono ed iniziarono a spogliarsi.
Via tutto: le tute, le maschere e la strumentazione varia.
Curioso che nonostante il tutto avvenisse dinnanzi ai miei occhi vivi, non ricordi i loro tratti o qualcosa di distintivo.


Comunque…Due cose continuavano a rimanermi oscure:
1)      dov’era il terzo malvivente.
2)      perché mi mostravano tutto ciò.

In realtà, sapevo benissimo cosa stesse succedendo e a rifletterci: sapere che stai per morire è più doloroso della morte stessa. Non questa volta però, con la mia famiglia al sicuro e ormai tra le braccia della polizia, i tre potevano: fottermi, ammazzarmi e scaricarmi nel primo porcile.
Preso dalle mie considerazioni non mi accorsi che i due mi fissavano annuendo.

Rumore sordo.
Io già in ginocchio crollavo a terra con gl’occhi sbarrati ed il fetore di quel ritrovo per pantegane solitarie nelle narici. Un secondo, un fottuto secondo e fui per terra, disteso in maniera composta ma non armonica. Un fottuto interminabile secondo del cazzo, questo è il tempo che ci vuole per spegnere un lumicino chiamato vita.

-Quando nei film l’attore di turno viene freddato alla testa, lo spettatore riesce ad assistere solo perché confida che nella realtà delle cose, sarebbe tutto troppo veloce per provare sofferenza.
Il dolore, il dolore fisico, è solo questo il problema. Dal pizzico alla più devastante malattia: dolore, privazione e violazione, queste sono le tre cose che ci terrorizzano come bambini al racconto dell’uomo nero-.

Comunque è vero, in parte.
Non sentì dolore, non mi accorsi dei due proiettili che mi penetrarono alla base del collo né del terzo a distanza ravvicinata che mi perforò la nuca. Non sentì dolore, non sentì niente. Non è vero, invece, che si muoia subito. Il corpo forse ma l’anima…quella no. Lei rimane, ancora un po’, bloccata dal torpore dello shock e in attesa di librarsi per un posto che non si sa. Rimane lì dentro di te ad osservare con occhi appannati gli ultimi dettagli della tua vita. Il freddo che porta in dote la morte, non è un problema di circolazione, è l’anima, lo dice la parola stessa: non sei più un essere animato. Non sei più…Io non ero più, eppure avvertivo il mondo diventare un quadro sfumato con colori che s’invadevano a vicenda.
Il terzo malvivente era alle mie spalle, sghignazzante nell’ombra. Aveva avuto il consenso dei compari ed il resto…bhè è storia.
Fu l’unico che non vidi mai in viso. Mentre crollavo, riuscì ad intravvedere -per via di un riflesso- solamente quel ghigno sprezzante che scopriva i lunghi denti bianchi.
Steso per terra con la faccia in una pozza d’acqua putrida e giallognola, affioravano sempre più sbiaditi, alcuni ricordi: i miei genitori, il primo giorno di scuola, l’odore dell’incenso in chiesa e quello dei posti cari, mia moglie ed i miei figli, lo stemma della mia squadra e l’immagine di un film che un tempo adoravo.
Mi spensi alle 4.30 di un freddo ed inospitale mattino di inizio novembre.



La polizia riuscì, mesi dopo, ad acciuffare i ladri. Durante il processo, alla presenza della mia famiglia, raccontarono di avermi sentito sbiascicare un’ultima frase: “Nella fine il principio, io ci sono…”.
Mia moglie non pianse, non lì, non davanti a loro. Nessuno mi conosceva meglio di quella piccola grandissima donna. Capì che la frase era dedicata a lei e ai ragazzi. Avrei voluto dirle che: sarei rimasto di fianco a loro sempre e comunque, che avrei cercato di sorreggerli quando le gambe avessero ceduto, che avrei asciugato le lacrime dagli occhi stanchi. Mi uscì solo :”…Io ci sono”. Lei capì.
La banda era composta da gente ordinaria, gente di una classe sociale di mezzo che nessuno vede  -quasi fosse invisibile-  ma di cui tutti avvertono la presenza. Un limbo culturale ed economico. Avevano mogli e figli. Oggi ho capito il perché di tanta calma, sapevano come sarebbe andata a finire, se non altro assicuravano ai loro cari un domani di speranza.
Era l’unica cosa che importava.
I due scagnozzi vennero condannati a 15 anni senza attenuanti, quello che sparò all’ergastolo, 30 anni.


Mia moglie andò avanti, rimboccandosi le maniche. Crebbe i nostri 4 ragazzi e riscoprì l’amore dell’uomo una decina d’anni dopo.
Di questa tragedia che ci sconvolse, rimango comunque contento.
Salvai la mia famiglia ed essa ebbe la forza di continuare ad essere tale.
Io riposo con i miei amati mentre le mie ceneri viaggiano clandestine nel vento per posti che mi furono cari. Se vuoi sapere chi fu colui di cui hai letto la dipartita, ti basti sapere: che fui bestia e uomo ed ora da dove sono ti lascio un sorriso ed un augurio:“ Sì te stesso, ovvero la cosa migliore che tu possa essere, nessuno sarà mai come te”.


Fine
JL

Commenti

Post più popolari