Rock'n'bong


Premessa: Che gran donna, quella. Non faceva niente di speciale, intendiamoci. Eppure, il fatto che ringhiasse per prepararmi personalmente il cafè, era motivo di estrema goduria per le mie orecchie. Mi si avvicinava lentamente alle spalle biascicando in una lingua tutta sua:” Ci pens’ii fare”, dopo di che spariva. Anche la mia pigrizia adorava quella donna. Che grande la mia pigrizia. Che grande quella donna.
Era assolutamente una piccola perla di un deserto irreale. Veniva dall’Eritrea, diceva lei. Aveva un sorriso sghembo formato da 44 denti, sfortunatamente solo 4 erano effettivamente di sua proprietà. Era abbastanza alta e magra fino al culo, che poi si espandeva modello canotto gonfiabile multifamiliare.
Il primo giorno che arrivò, sapendo che era Eritrea, le preparai un cartello con scritto: “Eritroia”. Mia madre mi bestemmiò dietro e lo distrusse. Fu comunque un gran momento. Quante risate con mio padre.

Incredibile, ora che la mia esistenza è agli sgoccioli, io penso ad una eritrea buona come il pane che parlava lingue inesistenti preparandomi il cafè. Tra l’altro quel genio di donna possedeva un vocabolario composto da tre frasi:
1)      “Tasa grande o tasa picula ? “ …La mia risposta era sempre: “ Tasa media, sempre allerta, sempre”.
2)      “ Ioni, Ioni, pipi, vieni fare pipi”… Quando tentava inutilmente di convincere il mio cane classista a seguirla per la consueta pisciatina di metà mattinata.
3)      “ Ciai Jagobuy buona serata eheheh”…Quando la sera mi salutava prima di tornarsene a casa. Davvero incredibile, saluto incomprensibile, risata grassa e 4 denti e tre quarti che mi squadravano. A me andava bene così, avere una doppia personalità mi affascinava.

     
      Riaprì gli occhi
Mi guardai in giro per un momento, non essendo mai stato un devoto fedele della speranza, ero sicuro che lo scenario che mi circondava e le mie condizioni non fossero mutate neanche di una stronzissima virgola.
A giudicare da come ero conciato non mi restava molto. L’emorragia era già a buon punto e lentamente avvertivo il calore del sangue fuoriuscire dalla scomposta ferita laterale che mi stragiava come il Titanic.
E’ così, non c’era molto da fare. Non c’era proprio un bel cazzo di niente da fare.
Non avendo da bere, o una cagna che me lo impalasse, decisi di buttare giù quattro righe sulle mie memorie. Logicamente non potevo scrivere, per cui accesi il registratore del cellulare e iniziai a blaterare. Dio, quanto amavo scrivere.
Racconto la mia storia. Non ho velleità artistiche né tanto meno sono convinto che qualcuno ascolterà mai i miei vaneggiamenti.  Parlo per me, per piacere, per placare la nevrosi. Ma soprattutto: per bullarmi delle mie gesta anche con la morte.

Ps: Morte, sappi che non ti temo. Sappi che non t’insulto. E’ più ingrato il compito tuo cento volte della la regola alla quale la mia carne sottostà.

Comunque…Tutto ebbe inizio…

Nascita: Venni alla lue un giorno di primavera del 1940. I miei genitori mi chiamarono: Patrick/Terenzio/Cornelius/Dos Santos/ Streisand. Mio padre si chiamava: Giginho Prapapopu ed era un bonghista brasiliano. Esatto, lui suonava i bonghi. Esatto due volte, non guadagnava un cazzo. Mia madre invece si chiamava: Mariella Lisbon de Fisternast ed era una contessa uzbeca di chiare origini moldave…Si erano conosciuti durante il più grande ritrovo di bonghisti del mondo: il Bunga Bunga. Mio padre, fatto come una marmotta polacca che sniffa la colla, aveva scambiato i seni della mia futura genitrice per due bonghi. Lei dinnanzi a quella dimostrazione animala di forza, passione e schiettezza se ne innamorò istantaneamente. La sera stessa con in sottofondo i dolcissimi bonghi-tirolesi, copularono ripetutamente. Nove mesi più tardi in un ospedale del Wisconsin la mia genitrice mi sparò fuori dalla grotta. Venne così alla luce il salvatore dell’umanità. Ops, quella è un’altra storia.
Comunque, ero un bel bambino per tutti, tranne che per mia madre. La prima volta che mi vide disse: “Uhm…bruttino”. Venti minuti dopo io già poppavo latte a go go. Si era ricreduta la babea.
Il Wisconsin, che paese dell’argano. Confinava con Terabithia, la terra dei Minimei, la villa di Austin Power e Cartoonia. Ma tant’è…
Ero un predestinato, presto lo capì anche la mia famiglia. Posso dirvi che in quella sala neonati oltre a me, c’erano personaggi del calibro di: Oliver Hutton detto Holly -che fantasia-. Stewe Griffin, il bambino con la testa più grossa del mondo. Un bambino tutto rugoso e con dita lunghe e snervate di nome Etrusco Todisco, prontamente rinominato E.T. Una bambina di nome Jessica Fletcher, vestita solo di tutine gialle. Rimase in quella sala per tre ore e morirono 5 infermiere. C’era un’altra bambina che passava il tempo a leccarsi le dita mentre le infermiere aprivano i suoi pannoloni merdosi, credo si chiamasse Parodia o qualcosa del genere. Infine c’era un bambino di nome Robin tutto avvolto in un mantello, ma lo perdemmo quasi subito visto che nessuno se lo cacava. C’erano due gemelle: Terry e Maggy. C’erano due dei tre componenti del famoso trio: Aldo, Giovanni e Aldo. Se la memoria non m’inganna c’era anche un bambino che diceva solamente: “ Eooo è tutto molto bello”. Si chiamava Bruno. Ed ultima ma non ultima, una bambina di nome Ruby Ruby Ruby. Poveraccia, il brutto di avere un padre che balbetta.

Infanzia: La fortuna mi sorrise fin da subito. La guerra non mi toccò mai, veramente. Inoltre i tempi cambiarono e con l’invasione dell’amore libero, mio padre firmò un ricco contratto col gruppo: Santa Cluz Ansamble. Era un gruppo del Massachusetts che componeva canzoni criptiche incentrate solo su tre tematiche: colibrì, ciliegie e draghi di komodo. Quel gruppo sancì la nascita, probabilmente, del più importante movimento musicale della storia dell’uomo: il Rock’n’bong.
Ci trasferimmo a Londra. Io avevo una camera tutta mia, tappezzata di poster e colorata di un azzurro accesso. I miei decisero di non avere più figli ed essendo estremamente egoista e pigro, la notizia non m’infastidì mai più di tanto…anzi ad essere onesti non m’infastidì mai per un cazzo.
Mia madre si prese cura di me, e col tempo, dei miei innumerevoli casini. All’asilo trascinavo i bambini giù per le scale, li annaffiavo e se per caso avevano da ridire li picchiavo. Con le bambine, invece, amavo visitare i castelli di plastica, dai quali uscivamo  entrambi soddisfatti e con sigarettine di cioccolato in bocca. Le stolte poi nove mesi dopo…Ahia.
Avevo anche un suora alla quale ero molto legato: Suor Monica, niente rime del tipo:” Suor Monica a cui prude la…” Lei mi amava, ed io amavo lei. Poi le cose cambiarono, lei mi annoiò troppo col suo movimento: Cattolicesimo wow e le lotte tra il Cristo compagnone ed il Golgotiano, il demone di merda. Quindi, considerando anche che avevo finito i miei tre anni, salutai e me ne andai per non tornare. Ricordo che le dissi addio guardandola con occhi suadenti, e che dopo averle posato le dita sulle labbra, sussurrai: “Devi solo pregare per queste, Baby”.
Il periodo delle scuole fu un insieme di chiari e scuri. Le mie ripetute “prime volte” con la maestra di turno, m’impedirono di conoscere bene gli altri bambini che quasi mensilmente cambiavano. Iniziai fin da quell’età a dedicarmi unicamente alle cose che m’intrigavano: la scrittura, la letteratura, la filosofia, il diritto, la cinematografia e la musica. Mi obbligai a rimanere a scuola ancora per un po’, pur non riconoscendole nessuna utilità. Durante le gite, insieme alla mia banda, facevo scattare regolarmente il delirio. Gente spogliata e poi lasciata a vagare in corridoio. Donne improvvisamente sguarnite di biancheria intima. Agguati notturni ed i primi contatti con la droga, l’alcol e con signori dagli strani cappelli che poi mi fu spiegato essere poliziotti. Durante il mio percorso scolastico, divenni intimo confidente del preside. Ebbi anche la possibilità di conoscere dei veri professori e capire cosa questa parola significasse. Persone che spiegavano senza precluderti la libertà di capire e scegliere. Infine, a sedici anni abbandonai gli studi. La professoressa più ignorante e stronza che ebbi, mi disse: ” Resta, farò di te uno studente migliore, ti aiuterò ad imparare a scrivere”. Le sorrisi e placido le risposi:” Preferirei morire, che imparare a scrivere come lei”. Poi le citai quattro cose tra le tante che ci aveva blaterato durante le lezioni ma che non le avevo mai ripetuto durante le interrogazioni. In seguito le feci un discorso breve e conciso, ma sicuramente incisivo. Terminato me ne andai. Lei è ancora lì che si masturba con le mie parole. Si chiamava Guglielmina Sgaratagheshy Leonina.

Adolescenza e maturità: Fu così che abbandonati gli studi a sedici anni mi trasferì a Milano. L’Internazionale F.C mi aveva messo sotto contratto. Il presidente Angelo Moratti mi aveva dato fiducia ed io non vedevo l’ora di lavorare col gran maestro degli allenatori: Helenio Herrera. La mia permanenza fu relativamente breve ma assolutamente intensa. Avevo ottima classe, velocità nello stretto e tiro fulminante ma ero anche uno stronzo ed irridevo compagni ed avversari. Nella mia prima stagione giocai 25 partite su 60 segnando 38 gol. Fortunatamente questi bastarono per vincere Campionato e Coppa Campioni in finale contro i temibili spagnoli del Real Madrid. Avrei desiderato giocare di più ma tra infortuni e squalifiche questo non avvenne. Eccezionale ed estremamente divertente fu la squalifica che mi fu comminata dopo un derby vinto per 6 a 1.
Io avevo dichiarato in conferenza stampa che avrei segnato 4 gol, e così feci. Fatto sta che la palla era in nostro possesso e lo stadio gremito e caldissimo. Io ricevo il pallone, secco un paio di difensori e poi completo due triangoli col mio compagno d’attacco che mi restituisce infine la sfera. A quel punto mi ritrovo 5 metri fuori dall’aerea di rigore. Scarto gli ultimi due difensori, tra l’altro i centrali della nazionale italiana, ma non mi accontento. Scarto il portiere disorientandolo con un passo doppio, ma non mi basta ancora. Aspetto che torni un difensore, con una finta lo faccio scivolare e mentre questo cade culo a terra io insacco facendogli passare la palla tra le gambe. Gol !!! 4-0 . Da quel momento stacco la spina al cervello. Mi faccio tutto il campo ad una velocità folle. Quando giungo sotto la curva del Milan, prima li indico deridendoli, poi bacio la maglia, me la levo e me la scopo. Infine ricompostomi, abbasso i pantaloncini e col cazzo in tiro, invito i gentili supporter rossoneri a leccarmi le palle. Questi logicamente impazziscono, ed io vengo.
Il resto…è storia.
Alla fine, quella stagione vinciamo anche l’Intercontinentale ed io vengo eletto capo cannoniere e pallone d’oro che però rifiuto in rispetto dei tanti campioni che lo avrebbero meritato e non lo hanno mai ricevuto. Nella seconda e terza stagione rivinciamo tutto, riuscendo ad aggiudicarci anche la Coppa Italia. Io in due anni gioco complessivamente 80 partite segnando 120 gol. Ma i legamenti scricchiolano sempre più e la disciplina latita sempre. Una sera portai al centro sportivo dell’Inter un pullman pieno di spogliarelliste, tutte travestite da suore. Gran serata per la squadra. Un’altra volta litigai con l’allenatore e gli smontai le assi del letto. Quando questo si coricò prese una cragnata allucinante contro il muro. Un’altra volta svitai tutti i tacchetti ad un mio compagno che fece una figura di merda impiantandosi sugli scalini che conducevano al campo.
Tant’è…
Ho 19 anni, sono il giocatore più forte e scostante del mondo. Ho vinto tutto il possibile col mio club e tre palloni d’oro che non ho mai ritirato. Il numero dei miei fan è superato solo dal numero di coloro che mi odiano. Guadagno cifre astronomiche e le donne apprezzano la mia compagnia. Bevo, scrivo, suono e durante le vacanze recito.
Alla fine..La fine.
Il quarto anno con la maglia dell’Inter inizia e finisce subito. Il primo giorno di preparazione estiva mi rompo tutti i legamenti del ginocchio destro. I dottori parlano di stagione finita, io li spruzzo via come la flebo che ho nel braccio, ma tant’è. Non gioco un solo minuto quella stagione, fortunatamente l’Inter porta a casa la Coppa Italia. Riesco, fortunatamente, a rientrare per i Mondiali che si giocano per la prima volta a Cabot Cove. Io indosso la maglia numero 7 della nazionale Uzbeca. Vinciamo il Mondiale in finale contro la Francia. Di quel Mondiale ricordo, oltre alla nostra cavalcata trionfale, il paesino piccolo, troppo  piccolo, ma confortevole. Ricordo anche un’improvvisa ed efferata serie di omicidi. Poi capì..cazzo la mia compagna di sala parto Jessica Fletcher si era trasferita lì…permanentemente. In ultimo, ricordo con molto piacere le telecronache di Bruno Pizzul, il mio caro e vecchio amico. Mentirei però, se dicessi che quel giorno fui davvero felice. Non capivo cosa fosse la felicità, o meglio capivo che era qualcosa di astratto ed io odiavo l’astratto, odiavo non chiamare le cose col loro nome. Con quello che ero e che facevo, riuscivo a placare il mio animo. Riuscivo a vivere qualsiasi emozione, senza scacciarne nessuna.
A 20 anni, mi ritrovavo nell’Inter pluridecorata come capitano e campione del mondo ma in scadenza di contratto. Il presidente mi mise a conoscenza della volontà nel tenermi se mi fossi regolato, io staccai le labbra dalla bottiglia di whisky e lo guardai in maniera inequivocabile. Giocai il mio ultimo anno nell’Inter, vincendo tutto e segnando 150 gol, record tutt’ora imbattuto.
Poi, a 21 anni, libero e svincolato mi diedi un termine. Avrei vinto per un anno in ogni paese Europeo del grande calcio e in seguito mi sarei ritirato. Vinsi in Spagna col Real Madrid, in Inghilterra col Manchester United, in Francia col Paris-Saint-Germain, in Germania col Bayern Monaco ed infine in Olanda con l’Ajax. A 26 anni mi ritiravo dal calcio, cioè da me stesso. Io ero stato, ero e sarei rimasto per sempre il calcio. Questo non era bello nè brutto era semplicemente un fatto: io ero il calcio molto di più di quanto il calcio fosse me.

Musica, Cinema e di nuovo il manto erboso: La decisione di abbandonare il calcio, fu  dovuta sostanzialmente, al desiderio di vivere il rock e di lasciare una mia immagine imperitura impressa sulla celluloide. Nei dieci anni successivi mi trasferì prima Londra, dove ebbi la possibilità di suonare con un gruppo emergente di Liverpool. Composi e suonai la più bella musica che abbia mai sentito. Chitarre che volavano nevrotiche su note passionali. Era tutto folle, tutto veloce. Alcol per me e droga per loro. Poi un po’ la stupidità e un po’ il fatto che l’uomo è sempre schiavo del tempo, il gruppo si sciolse. Io proseguì oltre e collaborai con un gruppo che si chiamava “Kinks”. Dios Mios come roccheggiavano pure loro. Insieme componemmo una sola canzone: “ All day and allo of the night”. In seguito lavorai con un'altra band inglese con la quale composi: “ Jumpin jack flash”.Periodo folle, quello. Gente che si sposava per caso con persone od oggetti. Gente che finiva in galera e tornava dopo una settimana, stanze di alberghi devastate, insulti a pubblici ufficiali…e in conclusione quella volta che palpai il culo alla regina esclamando: “ God save the queen”.
Il tempo passava e l’Europa mi stava sempre più stretta. Avevo visto troppo di tutto, ma non tutto di tutto. Sfortunatamente la noia mi avrebbe comunque impedito di approfondire oltre. Quindi, un giorno senza avvisare nessuno, o senza aver sistemato nessuno dei miei “affari”, m’ imbarcai su un aereo di linea con destinazione USA.
In breve tempo riuscì ad adattarmi alla cultura e allo stile di vita americano. Quelli che in realtà non si abituarono mai a me furono, oltre alle forze dell’ordine, i repubblicani bacchettoni ma questa è un’altra storia. Conobbi Elvis e con lui scrissi il brano: “Pround Mary”. Non ho mai più conosciuto un’altra persona col suo talento, la sua capacità di stare sul palco ma soprattutto con la capacità di ingurgitare whisky e antidolorifici insieme. Lasciato Elvis che ormai era solo la triste caricatura di sé stesso, mi unì ad un gruppo di americani gitani, chiamati: “Credence Clear Water”. I quattro fottuti esseri umani più randagi e zozzi che io abbia mai incontrato. Dio mio quante bevute e quante dormite nel deserto. Diamine, che rock che facemmo in quegli anni.
Tuttavia la musica cambiava e io cambiavo mire. Decisi che il music time era over e che era tempo, invece, di dedicarsi maggiormente alla recitazione.
Conobbi Jack Kerouac, uno scrittore nel vero senso della parola. Un fottuto barbone col dono di dipingere parole sulla carta. Oltre a lui, conobbi tutta una cricca di scrittori disperati, visi segnati dal tempo, visi geniali che proprio in virtù di questa genialità sparirono prestissimo nella nebbia.
Insieme a loro approfondì concetti quali: intelligenza, spiritualità, tempo, nevrosi, schiavitù e stupidità. Scrissi parecchio in quel periodo, scrissi parecchio e mi drogai molto, bevendo sempre sempre sempre di più. Volevo vedere la cecità, dono dell’assoluta percezione dei miei sensi umani. Quanti spunti per la mia spada ad inchiostro. Vidi l’irrealtà come mai prima. L’astrattezza di qualcosa che non era né niente né tutto.
Ma come ho detto volevo recitare.
Mi allontanai da quel mondo, tanto quanto questo fece con me. Abbandonai la droga, mai la bottiglia. Riuscì ad introdurmi nell’America cinematografica. Lavorai con gente del calibro di: Charlot, Howard Huges, John Wayne, Gregory Peck ma soprattutto con quella dea di Audrey Hepburn. Riuscì, nel corso della mia carriera, a girare anche con Lawrence Olivier e una miriade di attori da tutte le parti del mondo. Era incredibile la loro capacità di indossare le persone come vestiti da sera. Loro entravano ed uscivano, io ero formato da un insieme di tanti vestiti cuciti indissolubilmente alla mia personalità.
Eravamo nella metà degli anni 80’ ed io avevo lavorato parecchio. Mi mancava il calcio, mi mancava come l’aria. Decisi di tornare nel giro in qualità di allenatore dell’Inter. Con quei ragazzi facemmo cose meravigliose. Vincemmo lo scudetto in rimonta sui cugini della città. Poi la società cambiò ed io lasciai. Andai così ad allenare la nazionale Italiana. Dopo quattro anni ed un titolo Europeo, riuscimmo a portare a casa il double laureandoci campioni del mondo nel primo mondiale disputato ad Agraba. Che caldo che faceva in quel posto, eppure, un’esperienza unica, colorata, con profumi ed odori incredibili. Ho tutt’ora un ottimo ricordo di tutto l’entourage della città, dal sultano al tappeto volante fino a Raja, la tigre, e che tigre…Tigre contro tigre, tigre contro tigre, tigre contro tigre.  
Nel 1988 finita l’avventura mondiale e con 48 primavere sulle spalle mi ritirai a vita privata. Alcol, sesso e scrittura..fu in quegli anni che conobbi una persona alla quale sono ancora estremamente legato. Una persona dalla cui penna sono stati incisi i versi più doloranti che io abbia mai letto. Caro vecchio Charles…
Comunque…
Le nevrosi e gli spasmi mi scuotevano sempre più spesso.

Risse e donne, donne rissose:
Periodo scolastico: Di questo periodo, tre sono le risse che ricordo in maniera più…divertente.
La prima si verificò durante un intervallo, quando litigai con le vecchiette che vendevano la merenda. Queste benedette vecchie, non sembravano apprezzare il poco tempo che rimaneva loro e compivano qualsivoglia azione con una lentezza esasperante. Così, balzato sul bancone, con una faccia indiavolata urlai:”Bazingaaaaaaaaaaaaaaaa” Ovviamente seguì il degenero. Un esercito di vecchie mi circondò, e io dovetti ricorrere alle arti marziali che mi erano state insegnate dal mio vecchio maestro Salvo La Vita-Beghelli.
La seconda, invece, avvenne durante una partita di calcetto. Feci un’entrata decisa ma corretta nei confronti di un mio compagno. Il quale in tutta risposta mi colpì con un calcio quando ero girato di spalle. Mi dovettero trascinare via in 8 per salvarlo ma lui doveva tornare a casa…in qualche modo, e ci tornò….dopo essere passato al pronto soccorso.
La terza ed ultima rissa avvenne durante una gita. Un deficiente, di un paio d’anni più grande, non voleva farmi sedere per cena. Iniziai a colpirlo con ripetuti ceffoni alla faccia, dopo di che, corsi tra due tavoli colpendo tutti i suoi amici. Ci furono parecchi lettini occupati, quella sera, in infermeria.
Le donne: ero solo un bambino, non pensavo a quelle cose all’epoca, non avevo tempo. Ero solo un bambino ma un bambino sveglio e il tempo come sempre lo rubai. Ebbi delle relazioni di poco conto con un paio di maestre che mi squadravano il righello. Tra medie e liceo mi dedicai alla scoperta delle mie compagne di classe, delle loro amiche e delle amiche delle amiche. Nonostante i miei rinomati gusti difficili, riuscì a trovare qualcosa d’interessante.
Non c’è stato luogo, nella mia ultima scuola, dove almeno una goccia della mia essenza si sia posata. Ricordo con piacere: la presidenza, la segreteria, il gabbiotto del portiere, l’ufficio del prete, le palestre e le docce. I nomi delle concubine sfuggono in questo momento la mia memoria; è superfluo comunque ribadire che passammo momenti intensi e divertenti. Io riuscivo a capirle, ad ascoltarle e loro avevano molto da raccontare…era affascinante.
Quando, di tanto in tanto, avvertivo la necessità di una sfida, mi dilettavo nella sottile arte della seduzione delle ragazze fidanzate.
Periodo calcistico: Furono innumerevoli le risse durante questo periodo. Di alcune ho già scritto. All’Inter fui sempre un calciatore piuttosto corretto, solo contro Milan, Juve e Roma mi trasformavo. Provocazioni, risposte ad avversari e tifosi, manate e sfottò. Mantenni questo atteggiamento lungo tutto l’arco della mia carriera, anche quando fui chiamato ad allenare. Il calcio è istinto, bellezza, divertimento e supremazia. Fuori dal campo riuscì ad essere anche più turbolento. Mi ammalai un paio di volte di sifilide, ebbi grossi infortuni ed il bere ed il fumo erodevano la mia carne ma non il talento. Dormivo poco, pensieri e nevrosi si accavallavano facendo a gara per fottermi sempre un po’ di più, giorno dopo giorno. Finì più volte all’ospedale, stranamente però, l’unica volta che ci finì senza compagnia accadde una sera che uscì a bermi una cosa in compagnia di Jessica Fletcher, rimembrando i vecchi tempi. Maledettissima Jessica…
Per quanto riguarda il capitolo donne…bhè diciamo che mi occorrerebbe troppo tempo per parlare in maniera consona e dettagliata di tutte quelle anime che si presero cura di me, o che con me condivisero fugaci momenti di intimità carnale. Mi limiterò di conseguenza a raccontare delle due persone che ricordo con maggiore fermezza. La prima si chiamava Delfina ed era argentina. Ragazza assolutamente pazza e con delle forme che facevano impazzire. Ci frequentammo per un paio di mesi, parlando sempre pochissimo, in ragione di altre occupazioni.
Indimenticabile fu quella volta che a Natale finimmo nel confessionale del Duomo. Il prete aveva lasciato acceso il microfono…immaginabile quale fu la reazione dei fedeli alle urla inconsulte che provenivano dal confessionale. Io mi beccai denuncia e multa salatissima. La seconda ragazza, che definirei come l’unica che abbia visto qualcosa di me, si chiamava Vivienne ed era francese. Rimanemmo insieme per quasi sette mesi. Lei mi seguì da Milano a Madrid. Era passione. Non era un pozzo di scienza, e tra l’altro, era anche un po’ ottusa e gelosa ma mi voleva bene, il sesso era grandioso e lei voleva prendersi cura di me. Con lei riuscì a parlare. Cercai di passarci il maggior tempo possibile durante quei sette mesi, non sempre tempo piacevole, ma tant’è…
Poi ognuno prese le proprie strade e la cosa finì.
Delfina e Vivienne…Ciao
Musica, cinema ed oggi: Il numero delle risse calò leggermente. Fu un periodo piuttosto sereno dal punto di vista artistico e questo aiutò. Ero abbastanza in pace con me stesso, anche e soprattutto quando ero solo. Naturalmente ci furono scontri con altre band rivali a cui regolarmente facevo dispetti durante i festival, tipo spegnere i microfoni o le luci, o cambiare il nome della band che poi lo speaker andava ad annunciare. Per quanto riguarda il cinema, rimasi esterrefatto per i primi tempi. Tanto quanto gli attori erano bravi a essere altre persone, erano anche vuoti e soli quando calavano le luci dei riflettori. Nonostante questo, riuscì a litigare anche con loro nonostante il motivo fosse sempre e solo: donne. Non che m’interessasse più di tanto..se il motivo fossero state le carote io avrei litigato per quello ma a quanto pare, le donne, erano l’unica cosa che interessavo loro. Per loro le donne venivano prima della fame, era meglio stare con una bella donna che essere il protagonista di un bel film. Per quanto riguarda oggi…bhè..a cinquant’anni posso dire con estrema certezza che non si cambia mai. Nonostante sia ancora un bell’uomo, vedo le rughe, gli addominali si piegano, i capelli diventano color del sale e del pepe ma dentro rimango sempre lo stesso e nel mio caso, la solita testa di cazzo. La nevrosi diveniva sempre più pulsante e il mio fegato sempre più intollerante al nettare. Ma questo ero, ed io continuavo la mia ricerca di anime pie delle quali nutrirmi.

I miei amici: amicizia, astrattezza, parole vacue…Ho sempre odiato i concetti astratti, e conseguentemente, l’astrattezza in generale. L’ho sempre ritenuta una via poco furba per evitare di chiamare: oggetti, situazioni, persone o emozioni col loro nome. In questo campo rientra con pieno diritto l’amicizia. Per me questo concetto è un’insieme di due sotto categorie: la conoscenza e la fratellanza.  Riuscire a trovare e riconoscere un fratello o una sorella è affare complicato, tanto quanto è inscindibile il legame che si crea. Durante il corso della mia esistenza riuscì a trovare tre o al massimo quattro o cinque persone che per me erano fratelli e sorelle. Se anche ne parlassi qui, adesso, non capireste più di quanto potreste capire del sole guardandolo dal balcone di casa. Tuttavia, non è questa la ragione precipua per cui continuo a celare l’identità di queste persone. Loro sono parte della verità, la verità è mia e la lascio per me.

Politica: Non ho intenzione di perdere più di trentacinque secondi a parlare di questo tema inutile ma viscerale. Io sono un liberale sociale. In parole semplici, larga libertà alla proprietà privata e profondo aiuto verso chi non può o non ha i mezzi per badare a sè stesso in maniera dignitosa. Il mondo è fatto da numeri uno, ma questi s’innalzano sullo zoccolo duro formato dal resto della società ed entrambi sono fondamentali ed inscindibili.

Religione: Da bambino fui profondamente cristiano e cattolico. Non dirò, che lo fui perché così mi era stato insegnato. Lo ero perché ci credevo. Col passare degli anni però, mi sono allontanato sempre e sempre di più dalla Chiesa e dalle sue contraddizioni. Trovavo molta più religione in un prete missionario che negli affari di corte di San Pietro. Detto ciò quando penso alla religione mi viene una cosa sola da dire: io credo che ci sia qualcuno sopra le nostre teste. Questo l’ho capito quando tentai di spingere la mia mente a figurare nel pensiero i concetti più estremi della nostra realtà. Riscontrando il fatto che il cervello non mi restituiva nessuna immagine, capì che c’era qualcosa o qualcuno sopra di me. Da qui a dire che colui che sta lassù ci ami, ci abbia fatto a sua immagine e somiglianza, ne passa e molto. No !!! Io sono convinto che Dio esista, non so se ci guardi o quale sentimento provi nei nostri confronti, se lo provoa. Non so se gli piaciamo ma c’è. Confido comunque, che la verità sia solo una questione di tempo.



La fine della mia famiglia: Ero figlio unico. Non mi pesò mai, come mai sentì il desiderio di essere responsabile di altri, data la mia scarsa capacità di esserlo di me stesso in primis. Questo ebbe come diretta conseguenza che tutto ciò che rimaneva delle mie origini, delle cose da difendere era incarnato dai miei genitori. Mio padre se ne andò alla veneranda età di 85 anni mentre riposava, dopo pranzo con la sua musica che suonava dalle casse dello stereo e un bongo sul comodino. Mia madre tirò avanti ancora un paio d’anni, ma la mancanza di mio padre e la noia lentamente la spensero. Morì ad 87 anni mentre sfogliava un album di fotografie. Non era malata, semplicemente, lo spirito aveva fatto capire al corpo che non ce n’era più. Il corpo aveva recepito e si era spento in maniera indolore, lasciando ai miei occhi rigati l’immagine di una donnina grinzosa che sorrideva con un album in mano.
Mamma, Papà vi voglio bene, avrei voluto solo avere più tempo…avrei voluto fare di più per voi…Ciao…

La mia fine: Nella fine il principio.
Eccoci di nuovo qui, da dove eravamo partiti.  Incredibile, l’essere meno responsabile del mondo che se ne sta andando per aver salvato una bambina. La babea si era spaventata per il rumore inconsulto di un camion, gettandosi di conseguenza e stupidamente, nel mezzo della carreggiata. Io riuscì con un slancio dei tempi sereni a spintonarla via ma questo mi costò l’essere colpito in pieno al suo posto. Una miriade di vetri tagliavano la mia carne sanguinante. Non mi lamentavo ed il dolore era accettabile, o più semplicemente, non me accorgevo. Non ero né felice né fiero di quello che avevo appena fatto, semplicemente andava fatto, volevo farlo. Non mi accorsi neanche del capannello di persone che si erano radunate intorno a me, tutte tristemente sorridenti ed impettite nell’orgoglio del gesto di uno sconosciuto qualunque. Del resto l’umanità è così, balla permanentemente sul filo della disperazione, del peccato, della caduta perenne. Eppure tu mostra loro un gesto di nobiltà o coraggio e scorgerai in loro, la distinta voglia di essere migliori. Voglia che tendenzialmente scompare, seppellita insieme all’esempio.
Oh Dio…l’incostanza delle persone.
Questo è quanto.
Arrivò l’ambulanza. Come questa si fermò davanti a me, il cuore batté per l’ultima volta.
Non ci furono né San Pietro né Lucifero in persona ad accogliermi. Semplicemente prima luce e poi no. Eppure io sono convinto che la morte, o almeno la mia, non sia altro che imbarcarsi su di un traghetto diretto verso la terra dei Nibelunghi. Il mio traghetto si è fermato a metà strada, e scaricatomi, ha proseguito il suo viaggio.
Io dovrei aspettare in questa terra di mezzo.
Dovrei.
Dovrei ?
Fortuna che sul traghetto vendevano whisky.


FINE
JL


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