Il mio treno, che poi cos’è mio...

“Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno."
Guy De Maupassant


I viaggiatori non han mai detto pur una sola bugia, per quanto gli sciocchi che se ne restano a casa rifiutino di prestar loro fede."
William Shakespeare


Premessa

6 Gennaio 2011

Dio Santo. Ho appena finito di farmi una delle più belle seghe della mia vita. Tante volte ho avuto chi provvedeva a questo futile, eppure incredibile, attimo di piacere in vece mia. Tante volte ho avuto anime rassegnate che muovevano il mio cazzo, su e giù, guardandomi sbarazzine e sorridendo per il luccichio che ne usciva. Tante volte ma non stasera.
Non mi lamento. Sia ben chiaro.
Avevo avuto due hamburger con bacon e patatine, avevo avuto musica, un amico e donne intorno a me.
Avevo avuto.
Era finito, ero da solo, mi facevo una sega. Mi ero fatto una sega. Il mio argano brillava, duro e dritto, affusolato con le venuzze bene in vista. Pulsante ed eccitato all’idea di svuotarsi e, come me, di fumarsi una bella Marlboro. Era scoppiato in mille schizzi di essenza calda. In mille getti potenti, brevi e fugaci, siamo d’accordo, ma colorati e calorosi. Mille gocce di sperma. Mille vite che morivano in fianco a me ed io pensavo solo che per un fottuto secondo ero in un posto non mio che non conoscevo ma dove mi affrancavo da tutto, anche e soprattutto da me.
Comunque, dopo aver saziato la fame di entrambi. Comunque dopo averlo pulito, lucidato e ricostretto alla prigionia…Comunque.
Avevo preso una bottiglia di limoncello. Dio Santo, il limoncello. Ci avete mai pensato…è un pensiero geniale..quanti oggetti, sapori immagini e così via…insomma quanti di questi sono metafore perfette di ciò che chiamate vita. Quanti di questi sono secondi della mia stra maledettissima esistenza. Bhè il Limoncello è fantastico, ed è una di queste cose. Ti avvolge nella sua dolcezza, nel suo calore. Ti stritola nel suo sapore amarognolo, nel suo retro-gusto aspro e nel suo colpirti quando sei più assuefatto, proprio come un cavallo di troia, proprio come una donna o proprio come una troia.
Comunque schizzato e bevuto, presi la decisione di scrivere..di scrivere una storia…di scrivere la storia di un viaggio. Sinteticamente potrei definirla come il banale racconto del mio ultimo capo d’anno. Intendiamoci, banale è banale, ma io adoro le cose banali, proprio perché nella loro banalità celano la loro saggezza, la loro profondità, la loro importanza.
Le piccole cose…quanto odio il termine le cose..ma tant’è…

Storia

28 Dicembre 2010

Ore 8.30. Apri gli occhi. Jacky apri gli occhi.
Che tristezza cazzo. Dovevo dirmi frasi sexy per auto svegliarmi da solo.
La sera prima avevo…Bhè precisamente non ricordo cosa, ma suppongo: degenero, africa e casino. Come al solito. Fatto sta che la fottuta sveglia continuava a strimpellarmi nel cazzo di orecchio. Un secondo ancora, il tempo di tastare una notevole erezione mattutina e compiacermene. Mi alzo e mi doccio, rigorosamente acqua gelida…in pieno Dicembre…erezione evaporata. Nel giro di mezz’ora faccio la valigia, buttando quattro cose e non capacitandomi del fatto che pur essendo quattro fottutissime cose, ci siano due sacche piene, uno zaino e il borsone degli sci. Jesus…
Bacio mia madre, saluto la donna di servizio, niente ultime occhiate, mi chiudo la porta dietro e sono sul taxi. Donna, rossa, sulla trentina, carina..quasi quasi due colpi…no !!!…ho voglia di andarmene. Ci parlucchio, più che altro l’ascolto: quanto è vero che ognuno ha tanto da insegnarti, oppure non t’insegna un cazzo ma è sempre interessante ascoltarlo. La pago, le sorrido e la saluto. Butto giù un caffè con Ema e la Giulia. Lui se la prende di forza e se la limona dura. Babbei, come se esistesse qualcosa che ti tiene sempre insieme, qualcosa che scampa ciò che non si scampa mai. Si ficcano a vicenda, non li vedo ma sò che le sue mani le palpano i seni, pieni. Lei invece, giovane e sciocca ma piena di emozione gli avrà accarezzato il viso, forse una palpata veloce al culo, no…al massimo la pancia, la schiena…per quanto..forse..il culo…bhè il culo è culo.
Fortunatamente il momento Super Quark finisce. Lui sale in macchina e mi sorride come un beota. Io lo abbraccio in silenzio. Cd, sigaretta, finestrino giù…partiamo. Vaffanculo.
I minuti passano, noi in giro per strade milanesi quasi deserte. Raccattiamo prima la Fra, detta anche Bella Ozi, Bella vera, Bella zia e Bella Fi…ndus. Personaggio clamoroso. Jessica Rabbit, più intelligente, ma anche molto più babea.
Fatto sta, raccattiamo questa sventurata della -così detta- Milano bene e risfrecciamo via.
Ci rifermiamo. Questa volta in zona Arco della pace. Raccattiamo Beretta, Luca Beretta, detto anche “Pezzo di cazzo”. Carica un beauty case sorridendoci compiaciuto. Noi altri disperados gli chiediamo se effettivamente gli basta un fottuto beauty case per 6 giorni. Ride pacioso il cretino. Sale in macchina, i pod, casse e sizza.
Via, sfrecciamo per l’ultima volta.
Arriviamo davanti alla Stazione. Sottolineo la Stazione. Sottolineo Centrale. Un punto di riferimento, marmo e cavalli, fasci littori ed anime che s’incrociano. La stazione è Centrale, noi siamo degli sbandati.
Il treno per Crans ci aspetta al binario sei. Sei come i giorni del nostro soggiorno, sei come il numero del Diavolo, sei come i vagoni che formano il treno. Sei. Sei come sei.
Saliamo.
Il treno.
Oh mio Dio.
Il treno, fottuto amico / nemico dell’uomo e degli esseri come me.
Il treno
Fu allora che mi venne in mente questa frase: "Un treno, il treno, è come una vita, la vita: fuma, passa per qualche galleria e alla fine si ferma. Ah, ha anche il vagone ristorante."

Ultimo vagone: 6° vagone = primo giorno.
Apriamo la porta.
Non ci sono pareti, né sedie. No gente, né controllori. Solo una strada lunga e persa tra montagne secolari ed innevate che ci accolgono con sguardi severi. Musica penetrante scorre via veloce. Si susseguono note di un Ligabue migliore, di un Ligabue di tempi che furono. Berry è dietro di me, sorride ma è silenzioso. Dio, che sorriso contagioso quel fottuto uomo: forte, strano..ma forte.
La Fra fa la burrosa tra Berry ed i miei sci, un po’ canta il Liga, un po’ parla della sua notte insonne tra cani, genitori e rugbisti cui di notte dai del tu. Ema, fianco a me, guida. Guida sicuro il piccolo. Parla, Madonna mia, quanto parla. Eppure, per quanto pensi di vivere in “O.C”, la gioia di quell’uomo, la gioia per le cose semplici. La gioia per gli amici e la gioia per chi non gli è amica. La gioia per le cazzate e la gioia  nel dire a suo modo cosa è importante per lui. Amavo quella testa di cazzo rasata. L’amavo fottutamente, era la bontà e la stupidità fatta ad essere umano. Era uomo più di quello che io sarei mai stato. La strada correva veloce sotto di noi che la solcavamo irrispettosi e potenti dell’impotenza assoluta. Ad una certa Ema ferma la macchina. Davanti a noi una stazione ferroviaria da film western di serie b. Unico binario, non un’anima viva. Quattro macchine, con gente pacchiana, aspettavano la stessa cosa che a quanto pare stavamo attendendo anche noi. Una pattuglia si ferma dietro la macchina di Ema. Il poliziotto, un omino sulla cinquantina, tira giù il finestrino ed urla se deve scriverlo sul parabrezza, al mio amico, che si deve levare per lasciargli il passo. Io recepisco, mi volto, e senza guardare Ema gli grido: “ Ema…Fuori dalle balle”. Apprezzamento del pulotto, ammiccamento gay mio. Crisi scongiurata. Ah dimenticavo…viaggiavamo con del fumo nel porta oggetti. Inimmaginabile, il sottobosco muschiato che si era formato nell’abitacolo.
Il tempo scorre. Il pulotto torna da noi chiedendoci i documenti. Raccolti tutti si volta e torna nella sua pattuglia a farfugliare con la collega e la centrale. Dopo una cinquina di minuti ritorna verso di noi, sorridendo sotto i baffi: “Ragazzi, ma Emanuale vi ha fatto vedere la sua foto della patente ? Consigliategli di perderla e farne una nuova. Comunque, tutto a posto, andate pure in Svizzera a fare casino che lì la polizia non è mica come qua”.
Un genio quell’uomo. Amo la polizia di questo paese del cazzo. Amo questo paese del cazzo, amo e odio. Che genio quell’uomo…credo si chiamasse Tony Calvo.
Tant’è, imbarchiamo la macchina sul trenino del cazzo e ci tuffiamo nella caverna che fotte la montagna. Non una luce, né un suono se non quello del treno che ballonzola come una troia scopata di lato. Il Liga continua a cantare contrastato dalla dance di buon gusto pompata dal giovane Berry.
Venti minuti, non di più. Venti minuti e siamo in Svizzera, anche se il colpo d’occhio restituisce cartoline di Forks e vampiri. Due statuine zufolotte ci chiedono se abbiamo qualcosa da dichiarare. Avrei potuto dirgli il mondo. Mi limitai sull’esempio dei miei compagni a fare no col capo e tanto bastò. Eravamo penetrati in territorio elvetico.
Prima missione riuscita, non male.
Che paese del cazzo la Svizzera. Cioè, bellissime montagne, paesaggi da mozzare il fiato, ma Cristo Santo, siamo nella fottuta Svizzera francese ed i cartelli sono tutti in tedesco. Inoltre il conducente che visita quei luoghi da quando era in fasce non si ricorda la strada per casa sua. Quasi da dirgli: “Ema hai l’Alzheimer ma per fortuna non hai l’Alzheimer”.
Maledetto Ema, ma lo amavo, forse lo amo ancora, di sicuro me lo lecco.
Il viaggio prosegue tra autostrada e super strada. Ema ad una certa vara il momento libro cuore. Lo vara raccontando d’infelici storie d’infanzia di cui è il protagonista. Epica la storia dell’armadio, con prigionia annessa. Ema, l’unico uomo rifiutato anche da Narnia. Era sopravvissuto in questo fottuto armadio succhiando la condensa dalle assi di legno. Si era vendicato poi, Il merda. Aveva fatto mangiare ai suoi sequestratori della pappa per cani, anzi dei croccantini. Che grande. Inutile dire che durante i racconti, io, Berry e la Fra piangevamo, letteralmente. Quanto abbiamo pianto.
La strada corre veloce.
L’aria sferza, senza risultato alcuno, le lamiere del grigio macchinone di Ema.
Inizia a nevicare. Non si vede una cippa. Iniziano le curve. Inizia la salita. Fan culo.
A quindici allora facciamo curva dopo curva. A quindici allora riusciamo a prendere la salita sbagliata ma paradossalmente giusta a suo modo. Arriviamo. Arriviamo, non alla Ema’s mansion ma casa Dubini. Quattro saluti gay, scarichiamo la Fra, carichiamo Messner Di leo che nel frattempo urla: “ altissima, levissima, fighissima…ueilààààààà”.
Ripartiamo, altri dieci minuti. Siamo a casa di Ema. Scarichiamo i nostri quattro averi. Saliamo una rampa di scale. Apriamo la porta. Ci siamo. This is it.
Sulla destra un piano cottura / dispensa, sulla sinistra un cesso ma di lusso. Diritto una stanza, un tavolo, una tele con dvd, due sedie, una poltrona ed un divano. Oltre solo un balcone.
Io penso: ”che figo”, c’ha il collegamento nascosto per le altre stanze. Ema mi ride in faccia, e mi fa capire che il collegamento è talmente nascosto che non esiste. Io gli ri-rido in faccia. Era cominciata la battaglia per la sopravvivenza. In quella stanza / casa tutto era a scomparsa. La poltrona era un letto, il divano erano due letti, il muro era un letto, la televisione era un albero, il dvd era un facocero e Babbo Natale, bhè quello solamente si faceva inculare dal mini albero di Natale.
Il mio sguardo poi si tuffò sul tocco di classe della stanza. Una vaschetta con un ovetto di plastica, brutalmente spaccato, e uno stegosauro color del piscio morto affogato, la cui carcassa galleggiava. La vaschetta fu prontamente allontanata sul balcone. Lo stegosauro. La sua carcassa, meglio, congelò. Ciao Ice Age.
Cazzo siamo a posto. Cazzo mi piace quella casa. Ci siamo. Cazzo
Passiamo il pomeriggio a giocare a Pes. Gli altri escono, io gioco a Pes. Gli altri tornano a casa e noi giochiamo a Pes. La sera ci laviamo. La sera usciamo a mangiare. Andiamo in un ristorantino, anzi, una pizzeria. Ancora non avevamo capito cosa volessero dire Svizzera e neutrale. Una margherita 18 franchi. Col cambio svizzero uno a uno, diciotto franchi corrispondo a quindici euro. Ok. Non è un problema. Mi porti uno di tutto. Mangiamo, sbevazziamo e paghiamo il conto. Abbandoniamo celermente quel luogo tristanzuolo. Ci trasferiamo negli unici due locali del posto. Il Pub prima e dopo il Monkeys. Il Pub, che si chiama proprio Pub, era frequentato da quindicenni obesi e quattordicenni con top e voglia di cazzo. Prendiamo un jack e coca. Il barista più giovane ci chiede dieci franchi e posso assicurare che per la quantità di nettare concessaci erano veramente troppi. Paghiamo e ce ne andiamo. Ma uno dei nostri, uno a caso non ha pagato dieci franchi, pur avendo il nostro medesimo trattamento. Arriva la barista figa. Come tutte le fighe se non le impali te la fa pagare. Questo qualcuno infatti paga il Jack quattordici franchi. Per questioni di correttezza non posso fare nomi. Mi limiterò alle iniziali: Andrea D L. Anzi, A Di L. Anzi. A D leo. Ops…
Una mezz’ora e ce ne andiamo. Facciamo un salto al Monkeys, ma con quel nome…Un salto per entrare e uno per uscire. Fan culo.
Poi Ema dice la cosa geniale: “ Casinò”.
Risposta in coro: “ Vamonos”.
Non l’avessimo mai fatto. Casinò stra pieno. Non un tavolo per il poker, roulette stra piene. Io, scazzato, gioco una ventina di franchi sul 27. Esce il 28. Barba bianca….
Di Leo non gioca. Ricky ne perde una cinquantina. Beretta mangia tortini al gusto di merda, sorridendo durante l’atto. Ema gioca il 17, vince. Aspetta a riscuotere e non riscuote più.
Ok. Teliamo. Tutti alla Ema’s Mansion. Torneo clandestino di poker. Io e Berry vinciamo e smezziamo.
Di Leo decide che Misery deve morire. Tira fuori un bottiglione di limoncello dello zio Arispide. Ragazzi miei…proprio come una leccata allo scroto. Ti stravolge i sensi. Caldo e avvolgente e poi conto salatissimo. Che buono però… Gran Limoncello. E poi gran dormita e per gran dormita intendo 5 ore. Le uniche del nostro soggiorno. Finisce la prima giornata a Crans.
La nostra grandezza: Aver chiuso col sorriso nonostante il tutto ed il niente che avevamo fatto.
La perla: Ema che gioca a fare il gargoyles alle 5 del mattino al bordo del suo letto. Io scoreggio, me ne bullo e faccio agguati a Beretta, prima di diventare una stella marina sulla carcassa del Piani. Di leo si prende uno schiaffo sui piedi perché russa, se lo prende al posto del vero colpevole: Beretta che sghignazza nell’ombra.
Che stronzi.
Buona notte

5° vagone = secondo giorno
Passiamo al quinto vagone. Apriamo la porta. Letti, coperte arruffate e avanzi di galera. Aria di montagna, neve e caffè.
Apri gli occhi. Apri gli occhi.
No. Risata fragorosa, non ricordo il motivo… pazzesco. Eppure. Gran risata...
Buon giorno pezzi di cazzo.
Ruby Ruby Ruby:” cinque caffè, velllllloce !!!! “. Risata fragorosissima, e cinque fottuti cafè.
La giornata passa veloce, tra Pes, scoregge e risate. Passa veloce fino alle ore 14.00 zulu.
Paintball time.
Arriviamo ai piedi di una boscaglia che guarda amorosa un campo da calcio innevato. Quanto amo il pallone e quanta voglia avevo di giocare.
Arriva un tizio. Metro e settantacinque, capelli brizzolati, sorriso. Sembra un bravo omino. Parla mezzo italiano e mezzo francese. Per farci entrare subito in clima esclama:” Sentite l’elicottero ? – e mima il suono- …Aria d’incidenti, aria carica.” Ok ti amo.
Prima cosa: il tipo ci lancia, a noi maschi, delle conchiglie. Io la indosso e inizio a chiedere chi vuole vedere la mia busta, agitandola modello “Arancia Meccanica”. Il resto è un acconciarsi continuo, un insieme di regole ed indicazioni. Alla fine sembriamo degli idioti che fanno i militari. Esattamente quello che siamo.
Io vengo messo nella squadra dei bianchi, anche se siamo gialli. Con me: Ema, la Fra, la Bruce e la Dadi.
Gli altri sono gli Orangini  -che nome gayo-.
Si susseguono due ore di missioni e scontri aperti. Noi partiamo male, ma poi rimontiamo e non diamo scampo a nessuno. La vittoria è nostra. Da ricordare giusto un paio di cose. Ema che al mio comando di spostarsi veloce dietro una balla di fieno e poi colpire senza pietà, pensa bene di volare e raggiungere la postazione in posizione pentola da curling. Io rido talmente tanto che anche un castoro avrebbe potuto seccarmi. La seconda, invece è merito della Brèr. Colpita alza le mani in segno di resa, allontanandosi a capo chino dal campo di battaglia. Qualche Santo di cui sfortunatamente non si conoscono le generalità, le rifila –mentre lei è di schiena- una mega scarica. La poveraccia, si impianta dentro una radice e finisce a carte quarantotto. Tonfo, dolore, bestemmia e risate.
Ma soprattutto l’ultima cosa da ricordare: l’ultima missione. La missione per la vittoria. Gli orangini partono con il totem in mano, devono seccarci tutti tranne uno e posizionarlo nel nostro covo. Se ci riescono vincono.
Io raggruppo la mia squadra, penso a Leonida e poi spiego la strategia. Abbiamo giocato mezz’ora a fare le ombre. Nessun fuoco né di copertura né di avvertimento. Nessuna parola, nessun respiro. Eravamo delle ombre. La Fra, estrema ratio, era posizionata dietro la quercia del nostro covo. Gli orangini sono disorientati. Escono alla nostra ricerca, ed uno ad uno vengono seccati. Pallottole sparate 5. Vittoria. Strategia. Trionfo.
La sera non accade niente di trascendentale. Alcol, poker, film e tante risate, grasse e gustose…frivole quanto contagiose.
Chiudi gli occhi. Close your eyes.

4° vagone = terzo giorno
Il secondo vagone ci vomita via. Il Paintball time finisce. Un nuovo vagone, un nuovo viaggio. Un nuovo girovagare senza metà.
Apri gli occhi. Apri gli occhi.
Non c’è molto da raccontare. Ci sono storie in cui il tre, o comunque il terzo giorno, rappresentano tutto. Il tre, i miracoli, le decisioni, i momenti di/e per agire.
Il nostro fu solo un terzo vagone, un vagone anonimo ed interlocutorio. Il vagone dei progetti su come sfondarci a capo d’anno. Il vagone su come dividerci i compiti. C’era da fare la spesa, da fare i biglietti per il rientro e da ritirare un pacchetto, anzi un paccone, meglio un paccume…alla stazione.
La giornata passa veloce. Ma tre perle la rendono comunque eccezionale.
Prima perla: Ruby Ruby Ruby. La seconda mamma di Ema, età indefinita. Buona come il pane. La donna del caffè. Quanti ce ne ha portati, anche se non sempre velocemente. Ti amo Ruby, beata te che sei beata.
Seconda perla: Il Piccolo Timmy. Io adoro, venero: “Canto di Natale”. Nel racconto: il figlio dello schiavo del protagonista si chiama Timmy, piccolo Timmy. Un po’ per le storie di armadi e bullismo di Ema. Un po’ perché la sua donna è un torello. Un po’ perché fortunatamente Ema è Ema e rimarrà sempre così. Un po’ per tutto questo venne iniziato ad essere chiamato il Piccolo Timmy Tammaro. Il resto sono flash e risate. Secondi che volano, potrei provare a scrivere. Ma mi chiederebbe eccessiva fatica e non farebbero ridere.
Terza perla: Io avevo iniziato a chiamare il pene e Di leo: Busta. Ricordatevi Busta, vi servirà. Zio mi guardi la Busta ???
Il giorno finisce, la luce cala.
La luce cala baby.
Ci vediamo a Baker Street.

3° vagone = quarto giorno
Risucchiati dal quinto vagone. Risucchiati dal tutto e dal niente. Risucchiati dal nostro treno. Dal mio treno. Che poi cos’è mio, nostro…tutto e niente.
Io ed Ema andiamo a ritirare il pacco in stazione. Prima portiamo le ciurre a sciare e diamo una mano a Dildo e Bears con la spesa per la serata.
In stazione ritiriamo la Piccola Timma, la donna dal pigiama impossibile e Biancaneve. Volano abbracci leggeri, volano sorrisi e qualche limone duro. Ema palpa, io esco di scena. Riprendiamo la macchina. Ci strafoghiamo da Mac.
Macchina. Cd. Fan culo. Si parte
Si arriva.
Fan culo.
In diciotto in una stanza senza cielo. Si ride, si tocca, si odora. Si fuma e si fà, niente eppure qualcosa. Tutto eppure qualcosa. Le ore passano non veloci né lente. Passano, oneste, loro.
La sera mangiamo la sausice. Dio Santo che buone. Dio Santo che fatica per digerirle, dei piselli grigi e turgidi… eppure buonissimi. Lasso di tempo gay, nel quale la gente si prepara, poi si esce.
Destinazione Dubini’s Mansion.
Inizio freddino. Tipe a tavola. Noi assetati e vogliosi di cazzate. Berry prende possesso della postazione Dj. Io faccio il barman di me stesso.
Si parte. Ciao, arrivederci, addio.
Ema bacia Giulia. Giulia bacia Ema. Ema perde Giulia. Giulia non vuole perdere Ema. Ema s’incazza. Pantomima. Io parlo con entrambi. Che gay, eppure in un certo senso l’invidio. Così stupidi eppure così puri. Anche la stupidità può essere pura. Quasi come il sentimento. Litigano sul nulla. Litigano sul tutto. No. Questa volta il tutto non c’è. Anzi litigano per un vuoto pneumatico e non si curano di ciò che c’è. La Giulia sopporta. A me tornano in mente le parole del Liga:” Donne rassegnate ai nostri guai”. Ema fa la pace con le scosse uterine e la paura. La riprende, la bacia e la riabbraccia. Lei c’è ancora. Per lui, lei c’è ancora. E’ coraggiosa, stupida, forse folle ma c’è. Donnina cazzuta. Che gran cosa la stupidità.
Berry bacia la Mela. Non ho usato il termine “ficca due limoni” di proposito.
Berry la bacia. Lei risponde calda e passionale con labbra tremanti di desiderio, tormento e passione. E’ un susseguirsi di rapidi tocchi, di baci infuocati, di pareti che bruciano e di immagini colorate che frullano dal cuore alla testa fino allo spirito. Pervade tutto. Il cazzo vibra, lei si bagna. Ce n’è.
Io litigo con Biancaneve. Sono quasi sicuro che lei mi abbia detto qualcosa di molto gay ma nel quale crede veramente. Io sono esterrefatto. E’ bella quando s’incazza. Bella nel senso, divertente. Divertente nel senso, pura. Io rido. Con lei ci riuscivo. Lei s’incazza. A una certa è ora di tagliare. Le bacio la fronte, mi volto. Blow out.
Gli altri bevono, litigano e si baciano. Alcuni parlano. Altri sono disperati hanno perso qualcosa o qualcuno. Altri sono apatici nei loro gesti. Apatici nell’esserci. Io girovago. Come al solito visito e guardo l’umanità di cui mi circondo. Rido e prendo spunto. Dolce e amaro. Bevo. La bacio. Bevo e mi sdraio. Scattiamo foto, per incastonare momenti che non torneranno, che forse non ci sono, non c’erano e non ci saranno. Momenti che sono come un autogrill nella nebbia: “Ma tu l’hai visto ?”
Si torna a casa.
Coppie che si creano. Respiri pesanti e caricati più del necessario da desideri volubili.
Si ride e non si dorme. Si fa sesso. A volte si deve, altre si vuole. Altre si vuole doverlo fare. Altre non si dovrebbe volerlo fare. In quella stanza gira proprio il tutto ed il niente. Che discorso gay e soggettivo. Come cambiano i desideri ed i voleri degli uomini. Mani vorticose che frullano. Carezze pesanti e premurose. Saliva donata. Dolce e salato. Baci sul collo. Baci sul cazzo. Vagine che chiamano. Cuori che pulsano sentimento e pompano sangue. Occhi chiusi però. Tutto e niente. Nessuno affronta il tutto ed il niente ad occhi aperti. Tutti in quella stanza ed in quel momento possono guadagnare qualcosa. Conquistare qualcosa. O perderla. O perdere tutto.
Quella notte si dorme venti minuti. L’apatia vuole il suo tempo. Sempre e comunque, breve che sia.
Quella notte. Blow out.

2° vagone = 5 giorno
Le porte si chiudono. Dietro di noi. Il vagone del passaggio, tra un momento e l’altro della vostra vita e della mia esistenza, si chiude. Ci invita senza gioia né rancore ad imboccare il primo vagone di un momento nuovo. Che festa gay capo d’anno. Gente finta che saluta e abbraccia gente che odia augurandogli tutto il bene, mentre dentro spera che i freni della macchina cedano. Io adoro però le feste gay. Adoro l’uomo. Adoro quindi anche le sue incomprensioni. Adoro la sua necessità di celebrare, di scrivere storia. Di sentirsi necessario e pulsante durante il suo tempo.
Apri gli occhi. Apri gli occhi

1-gennaio- 2011
Uno zero in meno, un uno in più. Auguri.
Quel giorno non successe niente di particolare. In effetti, a ripensarci, raramente succede qualcosa di particolare. Per quanto a sproposito questa parola venga usata.
Quel giorno fu la semplice e naturale continuazione della notte precedente.
Pigiami impossibili. Sesso nella vasca. Soprannomi da degenerati, quali: “ Ciao Topino, Ciao bel visino”. Sguardi da falchi sempre attenti. Volgarità a grao.
Ema fu l’unico a mostrare un vero cambiamento. Continuò a non vincere una partita a Pes, neanche a piangere. Ma lo stronzo si specializzò nel segnare a chiunque da 85 metri di distanza con giocatori assolutamente fittizi. Avete mai visto Inzaghi segnare da una distanza superiore ai cinque centimetri ? Bhè io no. Lui lo ha fatto.
Oltre a questo, non contento il babeo, il nostro Piccolo Timmy Tammaro divenne di una volgarità gratuita e senza precedenti. Cosa non uscì da quella bocca. Donne maltrattate, minacce di cazzate in faccia. Insulti a grao verso chiunque. Verso la famiglia e la sua donna. Verso amici e conoscenti.
Non mi sento comunque, anche tutt’ora, di condannarlo. Il giorno prima aveva avuto un incontro ravvicinato con una femmina di Kikingero di nome Rudy. Codesta lo aveva ripetutamente ceffo nato sull’orecchio, rendendolo così cieco. Lui prima di abbandonarsi alla cecità era riuscito a sconfiggerla lanciandola contro un cassettone in legno di faggio secolare. Che grande Timmy e che volgare. “Oh ma che cazzo vuoi, ti piglio a cazzate in faccia troia….”Geniale.
Il tempo restante, lo passammo a preparare la partenza. Le mule fecero i biglietti. Noi ci rotolammo nei letti…al loro rientro. Mangiammo al Kebabbaro. La sera facemmo puntatina al bowling…impossibile…allora puntatina al casinò..impossibile.
Le mie palle doloravano e mi chiamavano lancinanti. Io abbandonai prima degli altri.
Pantaloni della tuta, film  e qualche minuto. Le mie fajitas erano come nuove. Nel frattempo gli altri erano tornati. Guardammo un film, ridemmo. Facemmo l’africa. Biancaneve se ne venne fuori con il racconto di quella volta che il padre – un brav’uomo mandato prontamente a morire, da me- l’aveva soprannominata Birilla.
La storia consisteva nel fatto che Birilla era il soprannome più azzeccato, per chi, come lei non stava un fermo un attimo..ed infatti…i birilli….
Provammo a spiegarglielo…ma era sempre una cazzo di Biancaneve che apostrofava tutti all’urlo di Ciaccio e Ciaccia pagliaccio/a…fu vano il tentativo.
La notte trascorse come tutto. Fumata via come una Marlboro, con il suo gusto, la sua promessa e la sua delusione. Abbracci spezzati, mani a cuore.
La notte trascorse.
La notte passò.
Blow out.

1° vagone = 6 giorno
Passaggio indolore. Passaggio dovuto. Dal secondo al primo vagone. Dal penultimo all’ultimo giorno. Dal quasi alla fine. Dal no more time, all’inizio.
Passaggio indolore. Ma incompleto.
Era un vagone strano. Diverso dagli altri. Un’aura di mistero lo circondava e noi non riuscivamo ad entrarvi. Non riuscivamo a farvi capolino.
Comparve allora, in quel momento, al centro della porta uno spioncino. Lo spazio per un solo occhio. Guardai.
Vidi Biancaneve chiedere, urlando in fiorentino, una busta. Vidi la mia faccia dilatarsi e piangere. Vidi Topino tuffarsi, stile film americano, verso di me urlando “NOOOOOOOOOOOOOOOO” : Vidi gente che rideva e sguardi che non capivano che diavolo stesse succedendo. Vidi buste.
Vidi cambiamenti di treni. Vidi gente che partiva con persone e persone che partivano con altra gente. Vidi stazioni, ma non centrali. Vidi Giovanni Rana. Vidi lasagne e cannelloni. Vidi la Signora in Giallo. Vidi gli ultimi abbracci, i primi baci e i sorrisi d’intermezzo. Vidi gente miracolata e sistemata alla meglio, alla buona. Vidi montagne scomparire dietro di me. Vidi il buio che ci salutava. Vidi lucine impazzite. Vidi tutto sotto di me. Vidi un treno che scappava veloce per giungere non si sà dove.
Vidi.
Stop.
Lo spioncino scomparì.
Non vedevo più niente. Potevo tornare liberamente in ognuno degli scompartimenti visitati in precedenza ma non potevo sfondare l’ultimo, e come me, i miei compagni di viaggio.
Non potevamo.
Non vedevamo.
Non entravamo.
Non passavamo per la locomotiva.
Non vedevamo cosa ci tirava, cosa ci lasciava, cosa guadagnavamo e a che prezzo. Cosa perdevamo e per quanto e perché?
Non vedevamo.
Non la vedevamo. Lei vedeva noi.
La locomotiva.


"Un treno, il treno, è come una vita, la vita: fuma, passa per qualche galleria e alla fine si ferma. Ah, ha anche il vagone ristorante." Cit JL



Fine
Jl

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