Un giorno che esiste solo per caso



C’erano sempre. I cani.
Mattina. Pomeriggio. Sera.
Era notte. C’erano lo stesso. Maledetti eppure miei. Non amici ma, oramai, abituale e costante presenza.
La giacca dilaniata, se ne stava, in su la spalla. Stanca ella e scoglionato io.
Il capo ciondolante. Un po’avanti ed un poco indietro, col risultato d’accelerare il passo per frenarlo il secondo successivo.
La casa di Jhon era ormai distante un centinaio di metri.
Jhon, il jazzista.
S’iniziava sempre col generico d’una vacua domanda e si finiva sbronzi a far l’amore con qualche strumento. Mai lo stesso. Costanti novità per le nostre sinfonie. Baccano per lo più. Musica, raramente.
'Mai casa per me. Mai casa per me'. Ogni singola, fottuta, nota partorissi. Sempre lo stesso, unico, significato. 
Folli corse giù in picchiata. Spirali. Lacrime di whisky. Tormentati atomi fuggenti. Gioie appena accennate. Gesti sussurrati, così, a prova di aliti più calcati.
Le trombe, i piani e la batteria. I clavicembali, i violoncelli ed i deretani avevano finito di baccanare. 
I cani continuavano a latrare. Confusi loro, un po’ randagi ed un po’al giogo del guinzaglio.
Portacenere improvvisati non erano, ormai, altro che moderne sculture raffiguranti antiche morti. 
Salutavo Jhon, il jazzista. 
Lo abbracciavo. Gli fasciavo il viso in una carezza. Nessuna parola. Bandita la vacuità del verbo. 
Un bacio sulla fronte e le spalle girate, disinteressate anche quelle, nell'aspettar il tonfo della porta su sé stessa.
Jhon era lontano, così come la musica ed i portacenere di casa sua.
Fuori al freddo, rimanevano i miei ricordi ed una giacca squartata che giaceva, a penzoloni, giù dalla spalla.
Il capo e tutte cose continuavano nel ciondolamento generale.
Imboccai un vicolo a destra. Viottolo, mulattiera o poco più.
Giunsi in una piazza bagnata da lacrime di anime che non esistevano più. Oppresse dalla nebbia che calava sempre prima e sempre più fitta, giù in città.
Presi una viuzza a sinistra. Molto amata da clochard e topi. Gli uni ci pisciavano prima del banchetto. Gli altri vi banchettavano, dormivano e pisciavano alla rinfusa; senza scomporsi o alterarsi per la stretta convivenza imposta dal caso.
L’odore acre pungeva le narici. Anche le mie. Anche sedate.
Tentai d’affrettare il passo ma capì subito di non potermelo permettere. Non avrei potuto fare lo schizzinoso. Così continuai con la mia claudicante, placida, camminata.
Terminata la viuzza avrei dovuto imboccare il vialone e percorrerlo tutto.
Superare la piazza de “l’Ostrica Ubriaca”. Continuare un centinaio di metri e giungere, finalmente, nella mansarda dove: un materasso sul pavimento, un bottiglia di jack ed un mucchietto di carboncini e fogli mi stavano attendendo.
Avrei potuto fermarmi lungo la strada. Sigarette e meretrici.
Sbronza, tabacco, seduzione a pagamento e scrittura da fonte viva.
Dio mio: le puttane. Eccellenti colleghe. Quante signore sono troie, a questo mondo, e quante puttane son gran’donne. Com’è sottile ed immensa, al contempo, la differenza.
La prostituzione, il pagamento, come condicio del piacere. Metafora sovrana di questa realtà perennemente al condizionale.
No, niente mercatino stasera. Al massimo, mi sarei zittito più tardi, dopo aver scritto nel sudore di un’altra alba sudata.
Passai dinnanzi all’ ”Ostrica ubriaca”. Il riflettere m’aveva cullato, più a lungo, di quanto pensassi. Entrai dentro al locale. Il tempo di salutare Kid, comprare un pacchetto di sigarette e farmi re-inghiottire, nuovamente, dalla fottuta notte. Nebbiosa.
I cani, maledetti compagni, continuavano ad urlare. Confusi randagi, figli di puttana.
Che è semplice per voi. Mangiare, fotter e cacare, per il resto.
Con un ghigno da imbecille (dovuto a quella considerazione) mi rialzai il bavero del maglione e feci per riprendere la strada verso il giaciglio.
“Ehi tu”
Quella voce doveva avercela con me. Ma io non con lei. Feci finta di nulla e tirai innanzi.
“Ehi tu. Fermati.”
Mi concentrai sui cani e svicolai a destra. Avrei allungato la strada. Se non altro, avrei evitato rotture.
“Ma dai. Ti vuoi fermare un secondo.”
Maledetto ubriacone.
Il vicolo era a senso unico. Strada chiusa. Fottuto e più lontano da dove dovevo andare.
Mai casa per me. Mai casa per me.
Cristo…
“Oh finalmente. E’ difficile parlarti.”
“Direi piuttosto: poco utile. Cosa vuoi ?” - M’accesi una sigaretta. Sapevo che la cosa sarebbe andata per le lunghe.
“Ti piaccio ?”
“Che domanda è ?” - In realtà mi fu utile. Per la prima volta guardai in viso il mio interlocutore. La mia, dovrei dire.
Donna. Alta sul metro e settanta. Forme procaci. Schiena da urlo. Gambe mozzafiato. Viso rubato ad una Gioconda ma forse era una Venere. Pensandoci bene.
“Ti piaccio. Sì o no ?”
“Sì, direi di sì. Non sei male.”
“Non sono male ?”
“Cosa vuoi, una promessa di matrimonio ?”
“Voglio sapere se ti piaccio ?”
“Ed io voglio sapere cosa, cazzo, desideri dalla mia carcassa.”
“Sapere se ti piaccio.”
“Di sicuro ti piace continuare ad inoltrare la stessa domanda.”
“Allora ? Sto aspettando.”
“Sì, mi piaci.”
“Quanto ti piaccio ?”
“Un po’.”
“Un po’ quanto ?”
“Un po’. A sufficienza per me.”
“E cos’è sufficiente per te ?”
“Tutto e niente. Possibilmente subito. E per favore: il più intenso possibile.”
“Io ti voglio.”
“C’era bisogno di farla così lunga ? Da te o da me ?”
“Io ti voglio.”
“Ti ho appena risposto.”
“Io ti voglio. Per sempre.”
“Ti và di scherzare, ubriacona ? Eppure non sembravi. Me l’hai quasi fatta.”
“Sono qui a dirti che ti voglio per sempre. Tu sei mio e non c’è niente che tu, o altri, possiate fare per cambiarlo.”
“Ascolta…”
“No. E’ così punto.”
“Guarda, forse…”
“Perché scappi da tutto ? Perché i cani abbaiano? Perché le sigarette s’ammucchiano ed il letto non ti riscalda mai ? Perché le parole vanno, via via, scomparendo ? Perché hai perso la strada di casa ?”
“E tu che ne vuoi sapere.” – Le dissi (con tono stizzito).
“Tu sei mio. Ed io sono tua.”
S’avvicinò e premette le labbra contro le mie.
Una mano s’arrampicava un po’ad accarezzarmi ed un po’a incorniciarmi il viso. L’altra aveva trovato appiglio sicuro nella mia spalla destra.
Mi baciò e leccò. Finì col farmi tornare al mondo.
Com’era venuta si staccò e tornò a fissarmi. Era serena, aspettava che m’abbandonassi a lei. 
Fiducia. Atto di fede. Così lo chiamava
“Non so neanche il tuo nome.” – Le dissi
“Manco t’interessa ma puoi sempre chiedermelo.”
“Non so niente di te.”
“Neanche di te stesso. Quindi ?”
“Ho paura.”
“Anche io. Ma ti amo e tu sei mio. E’ una mia scelta. E’ il mio destino. La mia natura.”
Mi voltai per andarmene.
Non tentò di fermarmi.
Con un esile sospiro mi mise in guardia: “Dove ti condurrà quella strada lo sai già. Di me non sai niente. Però hai una possibilità, decidi tu quanto e quanto grande, di tornare o giungere, finalmente, a casa. Sai che ti amerò. Sai che…”
La zittì così.
Il braccio in un fascio di nervi pulsanti a cingerle la schiena.
Una mano scivolava dalla guancia al collo. Dal petto al ventre.
Imparavo a conoscerla, centimetro dopo centimetro. Attimo dopo attimo.
Un’errante testa di cazzo, in un vicolo pisciato, una notte nebbiosa, di un giorno che esiste solo per caso. Cani randagi abbaiano ad un mondo che vive nel condizionale.
Scostai, solo per un secondo, le labbra dalle sue. Il tempo di dirle: “Per sempre, Baby”.
Si chiamava Truelove, Ermy Truelove. Ed era mia. Fottutamene mia.
Riappoggiai le labbra contro le sue.
In un impeto di frenesia le schiacciai sempre più, come a suggellare la più sacra delle promesse.
Un girovago ubriacone che scriveva, suonava e da oggi avrebbe fatto, o per lo meno vissuto, l’amore. Lontano, mai distante. Avido per certo.
Era lontana casa di Jhon, il jazzista.
I cani erano tornati nelle loro cucce.
I lupi, in branco, ululavano e la nebbia…bhè di quella….chi se ne fotte.
Mai più solo, sulla strada, verso casa.


Fine
JL

Dedicato a GLM

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