“Presentando cose a Desert City”
Le orbite fuori dagli occhi.
...Porca troia stecco sempre l’inizio...
Gli occhi fuori dalle orbite.
Non mancava nessuno quella sera. Il primo a non mancare era
il senso di colpa, figura costante per figure ormai aleatorie nella vita di un
tizio che giustificava con lo scrivere un alcolismo ricalcato col trattore ma
tutto sommato ancora gradevole.
Poltiglia rossa. Poltiglia rossa. Emorragie, perdite e
strizzate d’occhio.
Sarebbe finita in un sotto scala con un cocktail composto
buttato giù di colpo e riflettuto il giorno dopo.
Mi trovavo a Desert City, una volta ancora, nonostante tutte
le volte in cui mi fossi ripromesso di non mettere più piede in quel fetido
buco cagato via dalla più subdola e incrostata corruzione.
Mi ci trovavo per una presentazione, la presentazione d’un
libro, la presentazione d’un libro d’uno scrittore. Me l’avevano introdotto con
onori da antico romano “E’ un genio, un folle, un santo”, “E’ toccato dalla
mano divina, dalla mano di madre natura”.
Lascio fare e dopo questa presentazione importante mi
accomodo al tavolo di sconosciuti che mi viene indicato. Ero arrivato sospinto
dal vento e in compagnia di Brown Sugar e sua zia Angie G. Brown Sugar era un
venditore e come ogni venditore che si rispetti aveva due cose: un guarda roba
invidiabile e un’azienda. Col guardaroba aveva un rapporto morboso al punto da
supplicare i passanti di strusciarsi contro il cachemire delle sue giacche. Con
l’azienda aveva un rapporto di amichevole cazzoneria. Lui vendeva un po’ tutto
e lei si faceva mungere alla bisogna solo per il gusto d’esser solleticata.
Com’era una volta tra uomini e donne prima che queste pagassero per tornare a
trafficare in cucina. O prima che “modella” divenisse sinonimo di “Giulianona”
che è a sua volta sinonimo di “trucida” che i più traducono con “mignotta”.
Angie G, Brown Sugar ed io prendemmo posto a un tavolo per
sette occupato da sei, tutt’ora qualcosa, in merito, tende a non tornarmi.
Al tavolo per sette, come detto, eravamo seduti in sei.
Nell’ordine c’erano:
Franco Zappacosta che letteralmente si occupava di
packaging.
Miriana la
Moana gallerista in crisi d’identità.
Il Pipi lettore per vanvera, omosessuale per traffico.
Genny detta Goccia d’oro che faceva la cuoca ma aveva un
incantevole tic alla mano.
C’era poi Berty Fox, figona dello Zappacosta e anche lei
esperta di packaging.
Ultimo ma non ultimo Pino Gioppino mestierante e
rappezzatore amabile.
Un drink.
Polpette.
Pasta. La paprika è sul bordo. La K gira il mondo.
Un altro drink.
Ciao mi chiamo Cinzia ho trentotto anni e da ventiquattro
svolgo il ruolo di ballerina su un sottile filo di lana.
Piacere nostro Cinzia.
No. Piacere mio.
Se...lo dici...tu.... Fugone.
Arriva lo scrittore. Il celeberrimo Rock Hudson. Rock Hudson
presentava il suo nuovo libro “Non ho scritto un Hudson ma l’ho scritto bene”.
Scendiamo nel sottoscala.
Due fighe ammiccano.
Due mamme ammiccano
Una nasona ammicca.
Una dal lato sbagliato della propria infelice età bacchetta
i bevitori perchè il bere le rovescia le cervella. La besciamella. Come diceva
uno che non conosco “ bho”.
Arriva il ciccione che si scopa la ficona. Un gargantuesco
conto in banca sorretto o, a seconda dei casi, affossato da un guarda roba
deprecabile e un pisello di dimensioni gnomiche che per altro non vedeva
direttamente dal terremoto del 56’
a Macerata.
Arriva il maestro Zacc che forse, in realtà, si chiama
Zaff...nessuno lo sa con certezza ma per carità di Dio tenetelo lontano dalla
coca o dall’alcol perchè uno dei due ha abusato di lui senza ritegno.
Il maestro, che tipo il maestro. Nel senso..che tipo di
maestro e che tipo il maestro. Non raggiungeva il metro e sessanta e ricordava
in tutto e per tutto il Pinguino di Batman. Al posto dell’ombrello (che sarebbe
anche servito data la notte lacrimante) aveva una chitarra con la quale entrava
in sintonia strimpellando note accazzo mentre saliva e scendeva effeminate
scale di discutibile gusto.
Rock Hudson prese posto. Di fianco a lui Asso Nellamanica un
altro scrittore di gialli che quella sera avrebbe presentato o almeno tentato
di dare ai presenti l’idea che non fosse un soliloquio auto indulgente.
Brown Sugar ed io avevamo preso posto e, più precisamente, i
due posti più randagi del sottoscala. C’erano due banconi di legno, di quelli
che si usano al mercato, messi giù alla buona e coperti con due cuscini
imbottiti quel minimo da non uscire dalla serata col culo alla porcospino. Noi
eravamo lì e vedevamo tutto il sottoscala bagnato da quel poco di luce che
giungeva dalle scale, mentre i camerieri borbottavano tra piatti e zenzero e
Dean Martin risuonava la stessa canzone ancora e ancora.
Il sottoscala, posto strano quello, bestie mitologiche, pompini
e inginocchiamenti vari un po’ a trovare la fede e un po’ a perdere la rotta di
casa. Nell’aria l’odore dozzinale di un deodorante alla mela verde intasato di
disinfettante neanche ci fosse passata una banda di zingari.
Hudson prese posto, quello centrale, impettito e illuminato.
Nellamanica di fianco, da un lato. Il maestro Zacc dall’altro.
Hudson inspirò. Occhi socchiusi. Aria carica. Qualche
secondo d’attesa. D’incertezza. “Ok maestro, va bene, facciamolo”
....
....
....
“Le donne, le poppe, lo sanno, si toccano. Le donne, le
poppe, lo sanno, si toccano”.
Mi giro verso Brown Sugar “Qualcosa è andato storto”.
“Parrebbe”, mi rispose.
Cinque minuti dopo. Cinque minuti dopo nei quali le donne
avevanp continuato a mostrare le poppe, a sapere (non si sa cosa...) e a
toccarsi.
“Intanto grazie per essere venuti alla presentazione del mio
libro “Non ho detto un cazzo ma l’ho detto benissimo” è per me....”
Mentre Hudson faceva gli onori di casa sussurrai a Brown
Sugar “Ma scusa il libro non si intitolava in un altro modo ?”
“Sì, sì ma tu lascia fare. Sai come si dice...”
“No, come si dice ?”
“Prendi l’arte e mettila da parte”
“Ma che centra questo è un titolo”
“E appunto..che te ne fai di un titolo...lascia fare, lascia
correre.”
Tornai con l’orecchio a Hudson che stava terminando il
preambolo iniziale
“...E quindi uscito dal quel viaggio mistico mi resi conto
che era solo un banco di nebbia e che quella luce che mi attraeva non era altro
che l’insegna di un autogrill”.
Applausi generali. Orsacchiotti e reggi seni ai suoi piedi.
Uomini che si davano di gomito ammettendo “Che’l lì l’è semper un pass avant.
Genio post moderno te’l disi mi...”
“O post corretto, con la grappa...”, pensai io.
Hudson continuò “Sfortunatamente da quando il mio dottore
m’ha esaminato il fegato dicendo che non ho più un fegato, ho dovuto fatalmente
eliminare l’alcol dalla mia dieta, che per uno scrittore non è mai il massimo.
Anzi a proposito, Marisa mi porti una bionda media, di quelle del nord...”
“Ma maestro l’alcol....”
“Marisa la birra è una carezza in un pugno. Je t’amprie mon
amour”
“Va bene Maestro”.
Va bene, lo ammetto, aveva un certo stile farsesco che aveva
presa sulle donne. Non diceva effettivamente un cazzo ma lo diceva bene o per
lo meno in maniera divertente e attrattiva. In certi aspetti potevo addirittura
rivedermi tra trent’anni, il problema è che quello che lui si era sentito dire
dal dottore a cinquant’anni io me l’ero sentito dire da Gesù Cristo sei mesi
prima e se tanto mi dava tanto, le questioni erano due, primo: non mi rimaneva
molto tempo e secondo: ero dotato di un fottuto talento.
Ma basta divagare. Hudson era un omone di quasi un metro e
novanta. Occhi liquidi da marpione mascherato e cappello sempre ben calcato
sulla cucuzza. Pancia d’ordinanza e una buna dose di sfrontata arroganza. Aveva
un bellissimo timbro di voce che declinava sempre alla milanese.
“Allora praticamente questo libro che è stato tradotto anche
in polinesiano mandarino raccoglie dei racconti brevi che narrano le vicende di
questo Kato, cameriere tunisino, che finisce per fare il killer gigolò di
albatros australiani. Lui prima li sollazza e poi tira loro il collo. Ma non è
che uno può sterminare albatros così senza ripercussioni...”
“E cazzo...mi stavo preoccupando”, mi disse un Brown Sugar
in crisi poichè del libro gliene fotteva poco e il cellulare mal funzionante
non lo aggiornava sui risultati della sua squadra del cuore. Della nostra
squadra del cuore...
...”E quindi Kato cosa fa ? Fa che dopo aver sterminato
questi Albatros li spiuma, li taglia fini fini e li serve sotto forma di
insalata russa a un tavolo ucraino come estremo gesto di derisione sociale e
come estremissimo urlo conto l’attuale assetto geopolitico. Non vi svelo il
finale...anche perchè il libro è lungo 72 pagine e io ve ne ho già raccontate
67 e tre quarti”.
Apoteosi. Giubilo. Donne giovani e meno giovani. Bambine.
Uomini. Nani usciti dal forno solo per quel momento. E foto, dediche, un fugace
scambio di battute, un sorriso rubato, qualsiasi cosa, bastava incrociare per
un attimo il proprio destino con quello dell’autore.
Brown Sugar ed io nel frattempo eravamo saliti. Tra un gin
tonic e l’altro. Uscendo da una nuvola di fumo per entrare in un’altra. Forse
era nebbia. Forse solo foschia.
“Eh bhè, intenso, non c’è che dire”, disse Brown.
“E’ uno dei modi per definire questa serata”, risposi io
ancora assorto in certi pensieri che m’ero segnato s’un quadernetto ma che non
avevano ancora quella sostanza tale da poterli definire.
“Eh...che negatività. Non ti sei divertito ?”, mi chiese
Brown un po’ risentito come se la cosa dipendesse o meno da lui.
“Certo che mi sono divertito e solo che...non so, è uno di
quei momenti in cui non so. Stai tranquillo comunque dipende da me, non da
libri o sottoscala”
“Vabbè ma a me scoccerebbe finire la serata qui, un altro
drink da un’altra parte ?”, mi chiede uno speranzoso Brown.
“Esta bien gringo, basta che sia sulla strada”, sentenziai.
Ci congedammo dall’autore, dai fans, dalle donne mature, da
quelle più giovani e da quelle a caccia di qualunque cosa. Salutammo con
affetto Angie G che avrebbe continuato sulla sua costellazione alata
scintillante cui nessuno di noi due poteva ambire.
Salutammo Zacc, la cocaina, la chitarra e l’alcolismo.
Salutammo tutti, tutti tranne noi stessi, consci che ci sarebbe toccato di
farci i conti in faccia ancora per un po’”
Arrivammo al suddetto bar fraterno e, ordinati due gin
tonic, ci mettemmo fuori a parlare del nulla riempiendolo col nulla. Sogni,
donne dei sogni e sogni di donne. Desideri, ambizioni e fantasmi. Ma nessun
incubo.
Dopo un drink e due chiacchiere con una volpe russa Brown
Sugar affilò lo sguardo e pronunciò le fatidiche parole “Tempo di andare.
Novara m’attende. Mai casa per me, mai casa per me”.
Salutai Brown Sugar e mi diressi a casa, a piedi, tra una
pozzanghera e l’altra. Riflettevo sulla serata appena conclusa. Lo scrittore
illuminato e autoreferenziale. Angie G e le sue amiche. Brown Sugar coi suoi
casini ed io nella mia gabbia senza sbarre. Lo scrittore, nel corso della
serata, aveva detto “bevo donne quando ho finito di bere” e quella frase m’era
rimasta dentro. Ci stavo rimuginando da un po’. Stavo anche pensando al costo
della carne, all’impazienza. A come vadano a finire le cose o meglio a come noi
diciamo che le cose vanno a finire quando in realtà siamo noi stessi a dare
loro una bella spinta.
Non c’era poi molto d’aggiungere, un personaggio faceva lo
scrittore e aveva un suo seguito, una sua dimensione. Io ero sperso nella notte
e questa piangeva. Decisioni, sentimenti e altre robe nella poltiglia rossa.
Dal primo novembre al primo novembre. Ogni primo di
novembre. Finchè non sarà l’ultimo primo novembre. Questa frase non significa
un cazzo ed è per questo che cela in se stessa tutto il senso della vita.
“Se vi resta poca anima e lo sapete, vi resta ancora
dell’anima”. Vorrei essere aulico in questa stessa maniera ma la verità è che
al massimo potrei dire “Se vi resta poco fegato e lo sapete, siete fottuti”. La
mia anima è una fenice, non basta questo ? Non basta più ?
Chi sono io ?
Ma poi come cazzo s’intitolava ‘sto libro...
A Desert city le cose funzionano così...accazzo, pensando
quando viene, quando capita. Il cuore è poltiglia e tanto basta. Il resto è
fritto misto di mostri strani.
Che poi.....
All’improvviso un’esperienza extra corporea, l’insegna di un
autogrill.
Fine
JL
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