•• Quella volta che vinsi un dollaro a una cicciona ••

“Ricordi?”
“Ricordo le pieghe sgualcite del lenzuolo. Intrise d’un sangue ramato. Stanche. Di quanti finali non lieti avevano coperto.
Ricordo la luce della camera. Artificiale. Poteva essere qualsiasi ora di qualsiasi giorno. Spesso era la 25
ª dell’ultimo.
Ricordo le sue labbra trascinarsi stanche e rotte nel disegnare un’uscita di scena. Non ricordo le esatte parole, non ricordo le parole e basta. E... il resto è il resto, l’ho cacciato in tasca ma non ricordo di quale giacca... e mi va bene così”

Dio quanto mi è costato imparare a saltar fuori dalle parole. Spesso si cerca lo stile, la rotondità, il gusto sferzante di un concetto che spiazzi, che risulti accattivante, che sia in grado di capovolgere uno status quo. Si cerca di accedere alle teste, ai cuori ma in realtà, molto più spesso, a un paio di cosce. E poi subentra l’orgoglio, l’autoconservazione, l’allure da scrittori che non si è mai stati. E Dio mio, per l’appunto, quanto mi è costato in tempo, parole e mani di poker, imparare a spogliarmi da tutta questa merda.
Lo scrittore non lo fa il successo, troppe variabili. Non lo fanno le patacche che incontra lungo il cammino, troppo legato al verde che cresce in tasca. E non lo fa neanche ciò che scrive. Ciò che fa di uno scrittore uno scrittore è scrivere, senza orari, senza remore, senza scappatoie. Scrivere. Si è al contempo un nomade e un ladro. Si gira e si ruba, l’unica variante è che non ci si può mai permettere di voltare la faccia dall’altra parte. La intridi di sangue e inchiostro e la scaraventi sopra un foglio contribuendo a privare il mondo di un’ulteriore sfumatura di purezza nella speranza che questo ti porti ad alzare la testa nel cuore di qualcuno o più propriamente un whiskey, un giorno.

Ma questa è un’altra storia...

Avevo perso l’ennesimo lavoro appena prima di capire che fosse un lavoro, del resto c’è da capirmi era un secondo lavoro e il primo progrediva nel succhiarmi via, sempre più avidamente, ogni fibra vitale del mio essere.
Spesso nei tavoli di poker improvvisati dietro al jazz bar del quartiere armeno, qualche impavido, presomi in simpatia, si lanciava nel chiedermi quali fossero i miei affari. Lì con gli occhietti cirrotici abbozzati in due fessure scrutatrici che parevano squadrarti con attenzione quando erano in realtà totalmente assorti dal celare al mondo il segreto delle due carte del padrone. Avvoltoi incapaci, appollaiati su sedie di fortuna che stemperavano l’ansia della puntata con domande alla cazzo come questa, spesso posta in questa maniera: “Senti, ma una cosa prima di lasciarti andare te la devo proprio chiedere”. Dio, quante cose sbagliate in quella frase. 1) “Senti”, tanto per cominciare. Non sono un sordo cui è possibile a scelta un miracolo, sono tutt’al più un viandante condannato alle tue vacuità, quindi spara e basta e lasciamo i sentimentalismi alle vedove. 2) “Prima di lasciarti andare”, un senso assolutamente irreale di padronanza. Io sono libero, tu no, sei preda del tuo dubbio e lo affronti rilanciando a carte scoperte, carte piuttosto brutte per altro, mettendoti su un piano superiore della discussione e suggerendomi che la mia unica via d’uscita sia di risolvere l’ennesimo cazzo di dubbio amletico della tua insulsa vita. Falso.
Con puntuale fallacità la mia reticenza non mi salvava le terga e così alla mia risposta “sopravvivo” esso o essi, perché spesso il coro s’ingrassava come un capretto in vista del Natale, tornavano alla carica “Dicci, quali sono i tuoi affari?” Porgere tale questione a un uomo o anche alla carta carbone di questi pone il suddetto uomo dinnanzi a una scelta racchiusa esclusivamente entro due opzioni. La prima è un’accurata invettiva, al fine di tenere celati quelli che se per antonomasia sono i “propri affari” non vanno sbandierati al primo che passa, soprattutto se ti sei giocato i tuoi prossimi pasti con una coppia di otto e lui è baciato da una Dea che ci vede benissimo. La seconda opzione è quella di spargere per aria la tua coda ambrata di verde e striata di blu senza dissipare tuttavia il dubbio su quale cazzo di animale tu effettivamente sia. Optai per la prima opzione semplicemente perché la seconda non è un’opzione che si adatti a un uomo, finanche alla sua carta carbone. Così inspirai come un arciere prima dello scocco del colpo ferale e semplicemente lasciai andare. “Tu, puzzoso di uno, credi che non sappia delle tue mosse infami per distogliermi da queste due (indicando le carte). Tu credi che io non sappia, ma queste (indicando ancora una volta le mie carte) sono la vita, sono il mio centimetro, la mia libertà, il mio respiro sempre verde. Sono il mio medio in faccia a quelli come te e al loro modo di uccidere questo mondo. Vaffanculo e pensa a giocare, i miei affari sono miei. Bon voyage, goodbye, vaffanculo”. Il tutto a un tono decisamente esasperato e totalmente eccessivo anche per la commedia napoletana, ma quella brutta.
Dentro di me fremevo, se l’ennesimo bluff non avesse retto mi sarei trovato una banda di iene a banchettare sulla schiena. Non che ci fosse rimasto molto da spolpare ma potendo scegliere un’ultima cena, di sfamare delle merde striate col culo basso l’avrei proprio evitato, ecco. All’esterno apparivo placido, imperturbabile e a questo il whiskey di pessima qualità che stavo sorseggiando stava contribuendo in maniera apprezzabile. Occhi fissi in occhi fissi. Lui, un’ottantina di chili infelici e mal distribuiti su quello che doveva essere un metro e ottanta lavato male e ristrettosi di poco meno di un cinque o sei centimetri. Assolutamente incapace di qualsiasi forma di discrezione o eleganza. Veniva dal Tennessee ed era un trafficone in bestiame pompato come, mi aveva confessato lui stesso, la sua prostata o almeno quella che gli era rimasta prima che la scienza lo avesse aiutato a tornare a stantuffare. Due ex mogli e qualche soggiorno in galera dopo, aveva perso tutto, tutto tranne la voglia di farsi i cazzi degli altri e venire a giocare a poker fuori da un jazz bar con dei signor nessuno che lui aveva scambiato per stimati intellettuali della vita.
In quanto a me c’è una premessa da fare: da qualche tempo a questa parte il cibo mi va storto. Se devo pagarti, cucinarti, masticarti, finanche digerirti e il tutto per cagarti di lì a otto ore devi spiegarmi quale sia il tuo contributo in questo rapporto. Così mi tenevo al minimo e da qualche tempo arrotolavo di tanto in tanto un paio di sottilette, qualche patatina fritta stantia come i nodi dei marinai, ogni tanto del formaggio. Ma a pensarci meglio probabilmente erano ancora una volta le stesse sottilette solo che troppo sbronzo finivo per confonderle. Sia come sia ovviamente questo aveva influito sul mio aspetto. Alto ero alto, ne ero certo, non mi lavavo da un po’ quindi non potevo essermi ritirato e comunque ancora non puzzavo, non a livelli di guardia almeno. Diciamo che solcavo con serenità il limite del metro e ottanta. Pesavo quel che pesavo che non era ormai molto, dato che la mia principale fonte di sussistenza erano le intenzioni. Ne avevo una lista lunga cinque, tutte sagge e da rispettare ma fino a quel momento avevo rispettato unicamente l’intenzione di prenderne nota. E comunque non avevo pidocchi, semplicemente venivo dal Jersey e quando nasci nella principale città del mondo e comunque sei di serie b, questo cosa ti suggerisce sul possibile andamento della tua vita? Non che non c’avessi provato ma nella vita c’era troppo poco cuore e troppo lavoro e come ho già avuto modo di dire un lavoro già ce l’avevo, dalla tenera età di anni due. Un lavoro usurante, ineluttabile e tuttavia retribuito malissimo: quello di sopravvivere.
“Il piccione”, così lo avevo soprannominato, si chiamava T.J. Appena me lo confessò non potei fare a meno di chiedermi, come sempre accadeva alla presenza di un piccione, per quale stronzo motivo Barba Bianca avesse deciso che tutti i piccioni del mondo si dovessero chiamare T.J. Non avevo trovato mai una risposta a questa domanda ma non disperavo che la sera avrebbe portato illuminazione circa questa diatriba che dilaniava il mio scroto da sempre.
T.J. era fuori di sé un po’ per l’oltraggio e un po’ perché un piccione si incazza sempre quando gli fai credere di avere una mollica di pane che in realtà non è mai esistita. È la sua natura.
Mi fissava. Impazzito di rabbia. Lo fissavo di rimando, imperscrutabile ma sperando come un pazzo dentro di me di carpire una ruga di timore sul suo volto. “Credi, credi cazzo, che io abbia la madonna in queste due carte”.
Seguitava col fissarmi.
E io di rimando.
Non passarono meno di venti minuti. Whiskey dilatando.
E alla fine la fottuta ruga si palesò. Si stava convincendo che fossi un cavallo pazzo. Uno di quelli che possono tutto, quando vogliono. Ero appena diventato lo scolaro dotato che non si applica. Il genio sregolato. Il patrigno che gli scopava la madre senza prestargli la cortesia di prenderlo sotto il proprio cognome.
Avevo vinto. Bastava una spinta leggera ma ferma. Bastava instillare l’ultima idea. Il colpo vincente.
E quell’idea fu: pisciare. Non scherzo. Tutto nella vita ha un costo, anche il whiskey e quel costo è un’insana ma tuttavia non aggirabile necessità di mingere come un toro dopo una corsa a Pamplona. Usai la cosa a mio vantaggio. Eravamo tutti seduti al tavolo, appena fuori dal retro del jazz club. Qualcuno suonava di un cuore rotto, delusioni d’amore in attesa di riempire lo stesso letto con una nuova altra delusione. Per un po’ scopate e intontimento, poi dolore e poi una nova canzone per il jazz club. This is it. Comunque saltai in piedi ritto come un grillo, sempre fissando T.J. negli occhi. Cominciai ad allentare la cintura, sempre fissandolo. Cadde. Poi i pantaloni. Tirai fuori una verga cui la fantasia, su una lavandaia della zona nella quale mi ero perso quando gli avevo mandato la vasca (intercalare che sottintende alla chiamata di un “all in”) una quarantina di minuti prima, aveva avuto un apprezzabile effetto rinvigorente. Tosto ma ancora non così barzotto da svelare l’inghippo, un buon dodici centimetri a riposo. T.J. impallidì, io non feci altro che girarmi e lasciare che fosse. Il whiskey fece il resto. Una pisciata colossale, tre minuti di applausi. Un nuovo corso d’acqua in città. Rinfoderai e tornai a sedermi. Lo sguardo non si distoglieva. T.J. era pietrificato. Avevo vinto.
E no cazzo.
Venne.
Aveva coppia di re. Fanculo Freud e la psicologia. Mi stavo per scontrare contro una coppia di re e in mano avevo un due e un nove ramingo, il tutto neanche baciato dal medesimo colore.
Tant’è, si andò. Portammo i nostri resti al centro del tavolo, appena sotto le due coppie girate. Non dipendeva più da noi. Stava al dealer, un armeno anch’esso, e a Barba Bianca, che però raramente si interessava di tavoli verdi, lasciando così sempre più spesso nuovi adepti alla sua controparte.
Il dealer girò.
Re. Carta inutile. Due di cuori.
Ero fottuto come poteva essere fottuto un impiegatucolo che s’innamorasse di una stella di Broadway.
Avevo una coppia di due e una ciofeca. Lui un tris di fottuta nobiltà regnante.
Quarta carta. Un altro due. “Cool” ma non basta. Avevo l’impressione che Barba Bianca si stesse sintonizzando sul canale che trasmetteva le mie sconfitte e come di moda in questi ultimi tempi si divertisse nel contribuire alla disfatta quotidiana bruciandomi le antenne per poi osservare dove andassi a sbattere.
Mascherai questo e altri pensieri con lo stile che mi era rimasto. T.J. intanto già stringeva mani con atteggiamento da neosindaco, promettendo un giro a tutti i presenti, che lui “i villanzoni li regola così”, sentenziò.
Quinta carta. Il fottuto re di cuori.
T.J. aveva appena fatto poker. Realizzato l’avevo realizzato, per accettarlo sarebbe servito tempo. Lui era paonazzo come un irlandese al tramonto di San Patrizio, gli altri ancora in attesa di pronunciarsi a seconda del vento che avrebbe tirato. Rischio di botte da orbi che non valeva neanche la giocata iniziale. Aria carica.
T.J. ruppe gli indugi e cominciò a strepitare come un disgraziato. Saltava, se ne bullava, barcollava senza ritegno. Io accavallai le gambe e m’accesi una paglia. Poi il punto di rottura.
Il piccione preda del piccione. T.J. non si accorse che tutto quel dimenarsi farsesco aveva causato l’uscita di almeno sei carte dalla sua manica. Pensava di averla stretta al punto giusto ed era così, così almeno prima che gli mandassi quella vasca. Brutta storia la psicologia, l’ansia, le nevrosi. Un gesto da nulla come sbottonarsi la manica sovrappensiero, già, ora restava una guerra da combattere.
Sembrava proprio che gli assi non fossero gli unici fortunati a poter albergare in certe maniche. T.J. era sbiancato e nell’incredulità generale, da buon piccione, aveva provato ad anticipare tutti blaterando che quelle carte erano cadute dal tavolo e che quegli sguardi sempre più torvi non avessero proprio un bel cazzo di niente da imputargli. Credeva disperatamente nella propria menzogna e come dargli torto, era appena diventata la sua mano verso la salvezza. Una mano non vincente, ma del resto che volete farci con la psicologia.
Sfortunatamente per T.J. non ero stato l’unico ad assistere alla scena, come unico sarei stato confutabile ma in quel caso ogni singola testa, pensante o meno, aveva sgamato la truffa. Fine dei giochi. T.J. venne assalito da un branco di onesti furenti sconfitti. Nessuna legge farlocca o presunzione del cazzo. C’era solo la realtà adamantina del vivere cannibale. Quella della scaltrezza, della forza ma anche dell’onesta verità che o ce la fai o ne paghi il conto. Prese tanti schiaffi quanti tutti i soldati del mondo dopo il gioco che portava il medesimo nome. E venne per sempre bandito dal tavolo del “Flash club”, questo il nome del Jazz club. In ultimo venne spogliato di tutti i suoi verdoni a parziale risarcimento di un danno che andava ben più in là del denaro. Rubare tra chi non ha niente è l’unico reato che nessuno perdona mai perché umilia la gentilezza del passaggio su questa terra. A furor di popolo ripresi i miei soldi e una parte di quelli di T.J. Il resto venne ridiviso entro la compagnia che tuttavia si autotassò di un dollaro ciascuno, il totale dei quali mi venne consegnato, a loro avviso, per il mio modo gentile di correre come un fulmine e schiantarmi come un tuono. A fine a partita, partita nella quale ero entrato con cinque dollari, ne uscivo con un gruzzolo di ottantacinque bigliettoni fumanti. Non sarebbero durati più di quanto sarebbero durati quei cinque o quegli zero, ma la soddisfazione rimaneva e qualche sfizio, che poi è un vizio perché chi vive senza vizi non ha vissuto mai, attendeva un certo grado di soddisfazione.
La partita era finita e avevo vinto senza vincere ma anche avevo perso senza perdere. C’è qualcosa che riassuma meglio il senso della vita?
Terminati i convenevoli, i saluti, insomma lanciato un “Ciao” generale già a una distanza che mi mettesse al riparo da risposte o contatti fisici, svoltai il polso per dare una scorsa all’orologio. Due e trenta del santissimo mattino che rimaneva tale anche se era talmente nero il tutto che di un gatto nero avresti visto solo la sentenza delle sue pupille.
All’improvviso un flash “Il vecchio Joe chiude un quarto alle tre, che poi chissà perché mai un quarto alle tre, o alle tre o alle due e mezza. Diamine un po’ di simmetria, cazzo”. Mi ripresi da quell’inutile vaneggiamento e continuai “Sono a sei isolati dal vecchio Joe, alle due e mezza di mattina e l’unico mezzo su cui potrei fare un qualche tipo di affidamento è la volante della polizia per schiamazzi notturni che dubito ricomprenda il vecchio Joe nel proprio itinerario. Tuttavia se sveltisco il passo e i polmoni si dimenticano il passato, potrei farcela”. Mi bastava questa possibilità, io che avevo sempre odiato ogni sorta di condizionale, di augurio slegato dalla volontà.
Iniziai a correre ma sarebbe meglio dire caracollare con stile. E per Dio a due minuti dall’ineluttabile mi presentai davanti al vecchio Joe che però aveva già chiuso “merda secca”. Del resto pensai “Vecchio Joe non sarà stato un nome a caso, chi cazzo sceglierebbe di chiamarsi vecchio Joe non essendo né vecchio né un Joe”. La delusione era presente nei muscoli infiammati, nella piva nel sacco che continuava a ripetermi che anche stasera avrei bevuto domani e quindi vissuto e scritto e tutto il resto. Ero a pezzi. Mortificato. “Fanculo”, pensai, sono stato appellato in tanti modi, pochi quelli gentili, ma mai come uno che resta attaccato alle cose materiali; così girai i tacchi e ripartii per i quattordici isolati che mi separavano dal mio loft-stamberga nel quartiere “Baudmere” datomi in comodato dal vecchio Ford, amico di mille battaglie alle quali mi ero spesso presentato in ritardo. Un’ora dopo avevo percorso circa cinque isolati, la mente cavalcava al ritmo dei pensieri interrogandomi sui canguri del Tennessee, ammesso che in Tennessee avessero mai visto dei canguri e che questi fossero diversi dagl’altri canguri del globo. A una certa che non saprei incastonare in un quando ma che posso per certo asserire ci fu, una voce gentile mi interruppe “Perdoni Sir”. Dite, chi di voi al sentirsi chiamare “Sir” o al solo dubbio che Sir e il proprio nome potessero venire legati insieme nella stessa frase non si sarebbe voltato? Infatti, solo io e così feci. Proseguii ignorando una stupidissima voce che invoca un Sir in un’epoca in cui al massimo potevi incappare in qualche servo servetto del cazzo. La domanda di Sir alle mie spalle non andava esaurendosi e dacché lontana mi accorsi dopo poco come si facesse sempre più pressante, concitata ma soprattutto paurosamente vicina. Fino a che il pericolo mi fu dinnanzi e io non potei più ignorarlo.
“Sir, mi scusi”.
“Signora, la blocco subito, io non sono Sir, al massimo porta guai. Ma ne ho visto uno correre in direzione opposta alla nostra un paio di minuti fa. Avendone la voglia, se si sbriga, credo possa riacciuffarlo”.
Senza bisogno di sottolinearlo, stavo mentendo spudoratamente al cotechino che mi si era palesato dinnanzi. Sulla quarantina. Un metro e sessanta per difetto sul quale era mal distribuita una settantina di chili. Agghindata come un confetto nuziale e con sul viso dipinta l’espressione di chi crede all’amore e agli unicorni. La situazione s’era già fatta fin troppo spinosa per me. Avevo trenta secondi di sopravvivenza garantiti, il resto sarebbe stata mera improvvisazione.
“Sir non faccia così. Stavo cercando proprio lei”.
“Signora...”
“Signorina...”
“Quando dici il caso”, pensai, per fortuna senza condividerlo. “Signorina, dubito che lei o chiunque altro possiate cercare uno come me”.
“Perché lei come chi sarebbe? Io stavo cercando lei non uno come lei”.
Ormai incuriosito (e fottuto) azzardai l’unica domanda che avesse un certo senso di essere posta “E per quale motivo mi stavate cercando?”
“Per nessun motivo”.
Tirai un sospiro di sollievo “Allora arcano risolto. Nessun danno, nessun fallo. Mi stia bene”.
“Ho detto che stavo cercando lei non che la stessi cercando per un qualche motivo”.
“Signorina se volesse concedermi la grazia di essere meno enigmatica...”
“Lei è...”
“Non amo che si abusi del mio nome, me lo sussurri all’orecchio”. E così fece.
“Sì sono proprio io”.
“Allora vede che stavo cercando lei”.
“Vedo, vedo ma mi è ancora oscuro il motivo della ricerca...”
“Mi pare ovvio: del sesso”.
Mancò poco che mi strozzassi “Signora, Signorina, io non so che tipo di informazioni lei abbia ricevuto ma...”
“Poche ciarle Sir. Io l’ho vista dal ponte e lei è un uomo che campa per sfatare”.
“Sfatare cosa?”
“Tutto. Mi dica se sbaglio, ma lei tira a campare come se dovesse svegliarsi”.
“Signorina, e lei tutte queste belle cose le ha capite fissandomi dal ponte?”
“E da alcune lettere ricevute...”
“Mi spiace ma io non mando lettere da un pezzo. Non saprei a chi inviarle”.
“E prima di quel pezzo?”
“Escludo possa conoscere il pezzo prima di quel pezzo”.
“Un pezzo che si chiama Janiè per caso?”
“Va bene facciamola finita. Chi cazzo sei e cosa diavolo vuoi?”
“No, no Sir, niente rabbia. Io conosco Janiè, la quale mi ha detto che lei è un uomo sbiadito non utile all’amore ma utile per farci arrivare il prossimo. Un utile viatico, diciamo. Non so bene cosa questo voglia dire, ma lei mi ha assicurato che non avrei sbagliato a contattarla per arrivare al mio scopo”.

Janiè maledetta, ancora una volta. L’unica donna che si fosse insinuata nel mio cuore e ne avesse fatto polpa buona per i piccioni. E pensare che il lato comico della cosa è che in principio neanche mi aveva sfiorato l’idea di legarmi stabilmente a lei. Poi gli eventi, la chimica, la pazzia di entrambi. Ho vissuto solo quei mesi con lei. Poi lei si è risvegliata, è tornata o partita, a scelta. Io no. Da questo, il resto.
“Signorina parliamo di tanto tempo fa. Un tempo nel quale non ero in me e del quale non ho alcun piacere di riavere ricordo”.
“E lunge da me volerla riportare a tiro di un antico dolore. Vorrei solo ciò in cui lei è più abile al prezzo che riterrà più opportuno”.
“Signorina, davvero, non è il caso”.
“La prego, lo desidero con tutta me stessa. Come può immaginare non resto sovente preda di pretendenti”.
Non ce la feci più, scoppiai “Ti rendi conto di quello che mi chiedi? Tu vuoi che io t’imprima la mia anima accogliendo in rimando la tua. Dare vita alla vita. Darti, in realtà, una scappatoia da questo mondo infame. Questo mi chiedi”.
“O cielo non pensavo che Janiè rappresentasse così tanto per lei”.
“Non è così infatti”.
Desumo smascherò in fretta la mia bugia, ma ebbe cuore nel non rinfacciarmi questo successo.
“La prego, si corichi con me questa sera. Quello che ne verrà, qualsiasi cosa, sarà abbastanza. E il prezzo lo faccia lei”.
Non c’è niente di peggio di quest’ultima frase per uno scrittore fallito e un ubriacone in carriera. Lo feci: “Duecentocinquanta dollari”.
“Andata”. Non esitò un secondo.
“Andata”, ripetei più per forma che credendoci per davvero. A lei un po’ della mia finzione e a me un po’ di vita per qualche tempo. Che poi chissà perché aspettò quell’ora e quel posto per contattarmi. Come poteva sapere che lì mi avrebbe trovato, stronzo galleggiante sulla faccia della terra. Ero ben conscio sin da subito che non lo avrei mai scoperto. Il caso, il cazzo. Tanto bastava. E duecentocinquanta dollari.

La seguì fino a casa sua, che curiosamente non era distante dai pressi del ponte dove si era svolta la nostra contrattazione ma neanche dalla mia abitazione. Quando giungemmo si limitò a proferire un “Arrivati”. Una classica casupola della bassa borghesia. Due piani perché lo spazio di uno non bastava se non sommato a quello dell’altro. Mattoni rossi, tetto in assi bianche annerite dal tempo e dal consumo. Una bandiera americana sgualcita e alcune di quelle pietre orientali che tintinnano al suono del vento appese a una veranda appena abbozzata.

“Entriamo”, sentenziò.
“Entriamo”, acconsentii io.
Non ebbi grosse sorprese; la casa riportava senza dubbio all’anima della sua proprietaria, almeno nella parte cui fino a quel momento avevo avuto accesso. Il salotto era tutto rosa e color confetto e speranza. Volevo vomitare. Conchiglie e peluche in ogni dove. Infiniti libri che ciarlavano di miti e cazzate. Nessun classico. Nessun mio libro. Niente televisione. Un tempio per creduloni di periferia. Lei si accorse del mio pensiero, ne sono certo. Ma non mi redarguì.
Non avrei visto altro della casa, altro, oltre che ovviamente la camera da letto. La madame o signorina, o qualunque altra cosa rappresentasse per me quella sera, non me l’avrebbe resa così semplice, attraverso la gentilezza, s’intende. Mi mise a mio agio come se fossi io quello a disagio in quella specifica situazione. Curioso come la gente lenisca il prossimo con ciò che dal prossimo agognerebbe ricevere.
Mi offrì da bere. Una birra. Poi un’altra. Un’altra ancora. Dello champagne. Del whiskey. Mi allontanai con la scusa di mingere, in realtà vomitai, così avrei unito allo stupore alcolico la sensazione gonfia e psichedelica tipica del post sbocco. Tornai da lei e bevemmo ancora. E lei parlava e parlava, più per calmare se stessa che per comunicare realmente. Ciarle da nulla. Ciarle notturne. Da sbronzi. Quando senti tutto, la luna è vicina e tu abbai ma non è mai così reale e forse è così solo perché sei immerso in un mondo che non esiste ma che nonostante questo non si esime dallo svegliarti tutti i giorni e col mal di testa, per giunta.
Immaginai che il momento fosse giunto quando dopo un colpo di tosse a raccolta delle energie residue unì un discorso sull’eleganza dei tessuti damascati a un pizzo particolare di una coperta che teneva in camera. E infatti puntualmente lì ci recammo. La coperta era una merda, poche ciarle e fanculo il damascato. Presi la palla al balzo.
“Madame, perché non si mette a suo agio e mi lascia appartare la camera nel modo più accogliente possibile?”
Notai che la tolsi da una situazione di palese imbarazzo e infatti senza proferire verbo, ma con solo un impercettibile cenno del capo, annuì e andò a “prepararsi” in bagno.
Quanto al mio “appartare la camera”, mi limitai a scostare di un quarto quelle rivoltanti lenzuola e mi spogliai cacciandomi sotto di esse da quella che avevo deciso essere la mia parte del letto. Un’ultima accortezza che non c’è quasi bisogno di rimarcare, una donna che paghi per la cappella di un uomo e sia per giunta grassa non ha alcuna voglia di una luce accesa che le ricordi ambo le cose, ma questo è dannatamente vero anche per un uomo senza destino in un mondo non suo, che sopravvive vendendosi alle tristezze altrui. Luce spenta.
Dopo qualche minuto la porta del bagno scricchiolò e lei ondeggiò fino alla soglia della camera da letto che le era improvvisamente divenuta straniera. Si fermò indugiando. Dal canto mio, tentai di far uscire la voce più calda e rassicurante possibile e le chiesi con tono fermo ma gentile di raggiungermi. Obbedì diligente ma visibilmente impacciata. Impaccio che tentò di esorcizzare rincominciando a descrivermi ogni singola attività che aveva svolto in bagno. Sono sicuro che in parte volesse omaggiarmi col racconto dei preparativi, ma non farei questo nella vita se questo genere di racconti avesse una qualche utilità per la mia tragedia. Così le appoggiai una mano ferma sulla bocca. Sempre gentile ma ferma. Capito il concetto la tolsi e posai le mie labbra sulle sue. Dolcemente, come un pegno, come un segreto sussurrato. Come solo il primo bacio è e come tutti gli altri tentano di ricreare. Dapprima, sorpresa, abbozzò, poi si limitò a rispondere come i pallettari nel tennis, quelli che si preoccupano unicamente di rimandare la pallina dall’altra parte, senza cura per il punto e, vien da sé, per il trionfo. Ma poi. Non puoi tenere imbrigliata una donna troppo a lungo per quanto grasso la circondi. Esplose. Tutte le gioie umiliate, tutti i desideri. Tutto l’essere donna al di là di una prigionia anche se autoimposta. Tutto.
Affossò le sue dita attorno alla mia nuca e cacciò la sua lingua ben dritta nella mia bocca come chi voleva viversi la sua notte che non portasse rimpianti nello specchio del caffè il giorno dopo. Non mi tirai indietro e al suo lievitare, lievitai, e con mia grande sorpresa sentii un prorompente formicolio alle vene dell’argano. Duro, tosto, sull’attenti come un marine sempre fedele. Non passò molto di lì a che la mia anima di maschio ruggisse. La rivoltai come un calzino e feci per cacciarcelo dentro. La sua mano sicura m’afferrò l’argano ramingo e lo condusse entro mura sicure. Era fatta. Ci saremmo scopati addosso tutta la notte. Con licenza d’amore per uno o per l’altro. O per nessuno.
Il mattino dopo non ci fu mai. La notte, finito il sesso, esaurita l’eccitazione e con l’aria ancora carica che inebriava le nostre sazie narici, l’avevo avvolta in un abbraccio e lei si era sciolta. Persa in lacrime e risa alterne e isteriche. Raccontandomi la sua vita e le sue disgrazie, ma anche la sua forza nel farcela. Mi parlò del suo amore e di come quel vestito di carne le strappasse tutto il rispetto che vedeva riconosciuto agli altri. Se solo avesse saputo quanto poco rispetto vi era anche per gli altri, pensai. Disse che mi vedeva e che aveva capito che io pure ero in qualche modo prigioniero di un vestito che mi strizzava ogni sorta di velleità, solo che diceva “per te è più difficile perché il tuo problema è dentro”. Feci orecchie da mercante. Abbozzai, la abbracciai e la baciai. Non ci cadde mai, ma finì per addormentarsi e tanto bastava. Il mattino dopo, come annunciato, non ci fu mai. Lei si era già alzata. Uova e bacon mi attendevano in un piatto sul tavolo in cucina. A fianco la somma pattuita e un bigliettino “Grazie”.
Non toccai il cibo, anzi vomitai, ma senza ebbrezza questa volta. Dei soldi pattuiti raccolsi un solo dollaro simbolico. E lasciai a mia volta un biglietto di congedo “L’amore spesso dipende dall’accuratezza di un postino. Qui non c’è rimasto più niente per nessuno. Ma tu hai il sette per cento di possibilità. Se credi o se non credi. A scelta”.
Lasciai la porta chiudersi dietro di me, con la fiducia che ciò si sarebbe puntualmente verificato, ma ancora senza la voglia di controllare. Ero di nuovo in strada. Di nuovo solo.
Anche io non ero nient’altro che un mostro di quel mondo che tanto scacciavo. Ma lo sapevo, almeno lo sapevo, e cercavo di non uccidere più anime di quante Dio e Satana si spartissero in una guerra a loro immagine e somiglianza, che nessuno gli aveva chiesto di intraprendere.

Jacopo Landi
























Questo pezzo è stato scritto sorseggiando numero due di birre Italian Ipa pale ale.
Ascoltando a ciclo ininterrotto Mighty Sam McClain – “When The Hurt Is Over”.
Nessuna cicciona è stata realmente abusata, ma neanche baciata da dieci minuti di piacere, e comunque dubito che apprezzino essere chiamate “ciccione”. Credo basti un poco di gentilezza, di tatto, al più di sottrazione dal cattivo gusto dell’immediato.
Per la realizzazione di questo racconto si ringraziano: la mia malattia mentale, entrambe. I settantaquattro cents. che ho in tasca e le donne di malaffare che hanno scelto di lenirmi con gentilezza.





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