•• Quella volta che vinsi un dollaro a una cicciona ••
“Ricordi?”
“Ricordo le pieghe
sgualcite del lenzuolo. Intrise d’un sangue ramato. Stanche. Di quanti finali
non lieti avevano coperto.
Ricordo la luce della camera. Artificiale. Poteva essere qualsiasi ora di qualsiasi giorno. Spesso era la 25ª dell’ultimo.
Ricordo le sue labbra trascinarsi stanche e rotte nel disegnare un’uscita di scena. Non ricordo le esatte parole, non ricordo le parole e basta. E... il resto è il resto, l’ho cacciato in tasca ma non ricordo di quale giacca... e mi va bene così”
Ricordo la luce della camera. Artificiale. Poteva essere qualsiasi ora di qualsiasi giorno. Spesso era la 25ª dell’ultimo.
Ricordo le sue labbra trascinarsi stanche e rotte nel disegnare un’uscita di scena. Non ricordo le esatte parole, non ricordo le parole e basta. E... il resto è il resto, l’ho cacciato in tasca ma non ricordo di quale giacca... e mi va bene così”
Dio quanto mi è
costato imparare a saltar fuori dalle parole. Spesso si cerca lo stile, la
rotondità, il gusto sferzante di un concetto che spiazzi, che risulti
accattivante, che sia in grado di capovolgere uno status quo. Si cerca di
accedere alle teste, ai cuori ma in realtà, molto più spesso, a un paio di
cosce. E poi subentra l’orgoglio, l’autoconservazione, l’allure da scrittori
che non si è mai stati. E Dio mio, per l’appunto, quanto mi è costato in tempo,
parole e mani di poker, imparare a spogliarmi da tutta questa merda.
Lo scrittore non lo fa il successo, troppe variabili. Non
lo fanno le patacche che incontra lungo il cammino, troppo legato al verde che
cresce in tasca. E non lo fa neanche ciò che scrive. Ciò che fa di uno
scrittore uno scrittore è scrivere, senza orari, senza remore, senza
scappatoie. Scrivere. Si è al contempo un nomade e un ladro. Si gira e si ruba,
l’unica variante è che non ci si può mai permettere di voltare la faccia
dall’altra parte. La intridi di sangue e inchiostro e la scaraventi sopra un
foglio contribuendo a privare il mondo di un’ulteriore sfumatura di purezza
nella speranza che questo ti porti ad alzare la testa nel cuore di qualcuno o
più propriamente un whiskey, un giorno.
Ma questa è
un’altra storia...
Avevo perso l’ennesimo lavoro appena prima di capire che
fosse un lavoro, del resto c’è da capirmi era un secondo lavoro e il primo
progrediva nel succhiarmi via, sempre più avidamente, ogni fibra vitale del mio
essere.
Spesso nei tavoli di poker improvvisati dietro al jazz bar del quartiere armeno, qualche impavido, presomi in simpatia, si lanciava nel chiedermi quali fossero i miei affari. Lì con gli occhietti cirrotici abbozzati in due fessure scrutatrici che parevano squadrarti con attenzione quando erano in realtà totalmente assorti dal celare al mondo il segreto delle due carte del padrone. Avvoltoi incapaci, appollaiati su sedie di fortuna che stemperavano l’ansia della puntata con domande alla cazzo come questa, spesso posta in questa maniera: “Senti, ma una cosa prima di lasciarti andare te la devo proprio chiedere”. Dio, quante cose sbagliate in quella frase. 1) “Senti”, tanto per cominciare. Non sono un sordo cui è possibile a scelta un miracolo, sono tutt’al più un viandante condannato alle tue vacuità, quindi spara e basta e lasciamo i sentimentalismi alle vedove. 2) “Prima di lasciarti andare”, un senso assolutamente irreale di padronanza. Io sono libero, tu no, sei preda del tuo dubbio e lo affronti rilanciando a carte scoperte, carte piuttosto brutte per altro, mettendoti su un piano superiore della discussione e suggerendomi che la mia unica via d’uscita sia di risolvere l’ennesimo cazzo di dubbio amletico della tua insulsa vita. Falso.
Con puntuale fallacità la mia reticenza non mi salvava le terga e così alla mia risposta “sopravvivo” esso o essi, perché spesso il coro s’ingrassava come un capretto in vista del Natale, tornavano alla carica “Dicci, quali sono i tuoi affari?” Porgere tale questione a un uomo o anche alla carta carbone di questi pone il suddetto uomo dinnanzi a una scelta racchiusa esclusivamente entro due opzioni. La prima è un’accurata invettiva, al fine di tenere celati quelli che se per antonomasia sono i “propri affari” non vanno sbandierati al primo che passa, soprattutto se ti sei giocato i tuoi prossimi pasti con una coppia di otto e lui è baciato da una Dea che ci vede benissimo. La seconda opzione è quella di spargere per aria la tua coda ambrata di verde e striata di blu senza dissipare tuttavia il dubbio su quale cazzo di animale tu effettivamente sia. Optai per la prima opzione semplicemente perché la seconda non è un’opzione che si adatti a un uomo, finanche alla sua carta carbone. Così inspirai come un arciere prima dello scocco del colpo ferale e semplicemente lasciai andare. “Tu, puzzoso di uno, credi che non sappia delle tue mosse infami per distogliermi da queste due (indicando le carte). Tu credi che io non sappia, ma queste (indicando ancora una volta le mie carte) sono la vita, sono il mio centimetro, la mia libertà, il mio respiro sempre verde. Sono il mio medio in faccia a quelli come te e al loro modo di uccidere questo mondo. Vaffanculo e pensa a giocare, i miei affari sono miei. Bon voyage, goodbye, vaffanculo”. Il tutto a un tono decisamente esasperato e totalmente eccessivo anche per la commedia napoletana, ma quella brutta.
Spesso nei tavoli di poker improvvisati dietro al jazz bar del quartiere armeno, qualche impavido, presomi in simpatia, si lanciava nel chiedermi quali fossero i miei affari. Lì con gli occhietti cirrotici abbozzati in due fessure scrutatrici che parevano squadrarti con attenzione quando erano in realtà totalmente assorti dal celare al mondo il segreto delle due carte del padrone. Avvoltoi incapaci, appollaiati su sedie di fortuna che stemperavano l’ansia della puntata con domande alla cazzo come questa, spesso posta in questa maniera: “Senti, ma una cosa prima di lasciarti andare te la devo proprio chiedere”. Dio, quante cose sbagliate in quella frase. 1) “Senti”, tanto per cominciare. Non sono un sordo cui è possibile a scelta un miracolo, sono tutt’al più un viandante condannato alle tue vacuità, quindi spara e basta e lasciamo i sentimentalismi alle vedove. 2) “Prima di lasciarti andare”, un senso assolutamente irreale di padronanza. Io sono libero, tu no, sei preda del tuo dubbio e lo affronti rilanciando a carte scoperte, carte piuttosto brutte per altro, mettendoti su un piano superiore della discussione e suggerendomi che la mia unica via d’uscita sia di risolvere l’ennesimo cazzo di dubbio amletico della tua insulsa vita. Falso.
Con puntuale fallacità la mia reticenza non mi salvava le terga e così alla mia risposta “sopravvivo” esso o essi, perché spesso il coro s’ingrassava come un capretto in vista del Natale, tornavano alla carica “Dicci, quali sono i tuoi affari?” Porgere tale questione a un uomo o anche alla carta carbone di questi pone il suddetto uomo dinnanzi a una scelta racchiusa esclusivamente entro due opzioni. La prima è un’accurata invettiva, al fine di tenere celati quelli che se per antonomasia sono i “propri affari” non vanno sbandierati al primo che passa, soprattutto se ti sei giocato i tuoi prossimi pasti con una coppia di otto e lui è baciato da una Dea che ci vede benissimo. La seconda opzione è quella di spargere per aria la tua coda ambrata di verde e striata di blu senza dissipare tuttavia il dubbio su quale cazzo di animale tu effettivamente sia. Optai per la prima opzione semplicemente perché la seconda non è un’opzione che si adatti a un uomo, finanche alla sua carta carbone. Così inspirai come un arciere prima dello scocco del colpo ferale e semplicemente lasciai andare. “Tu, puzzoso di uno, credi che non sappia delle tue mosse infami per distogliermi da queste due (indicando le carte). Tu credi che io non sappia, ma queste (indicando ancora una volta le mie carte) sono la vita, sono il mio centimetro, la mia libertà, il mio respiro sempre verde. Sono il mio medio in faccia a quelli come te e al loro modo di uccidere questo mondo. Vaffanculo e pensa a giocare, i miei affari sono miei. Bon voyage, goodbye, vaffanculo”. Il tutto a un tono decisamente esasperato e totalmente eccessivo anche per la commedia napoletana, ma quella brutta.
Dentro di me fremevo, se l’ennesimo bluff non avesse
retto mi sarei trovato una banda di iene a banchettare sulla schiena. Non che ci
fosse rimasto molto da spolpare ma potendo scegliere un’ultima cena, di sfamare
delle merde striate col culo basso l’avrei proprio evitato, ecco. All’esterno apparivo
placido, imperturbabile e a questo il whiskey di pessima qualità che stavo sorseggiando
stava contribuendo in maniera apprezzabile. Occhi fissi in occhi fissi. Lui,
un’ottantina di chili infelici e mal distribuiti su quello che doveva essere un
metro e ottanta lavato male e ristrettosi di poco meno di un cinque o sei
centimetri. Assolutamente incapace di qualsiasi forma di discrezione o
eleganza. Veniva dal Tennessee ed era un trafficone in bestiame pompato come,
mi aveva confessato lui stesso, la sua prostata o almeno quella che gli era
rimasta prima che la scienza lo avesse aiutato a tornare a stantuffare. Due ex
mogli e qualche soggiorno in galera dopo, aveva perso tutto, tutto tranne la
voglia di farsi i cazzi degli altri e venire a giocare a poker fuori da un jazz
bar con dei signor nessuno che lui aveva scambiato per stimati intellettuali
della vita.
In quanto a me c’è una premessa da fare: da qualche tempo a questa parte il cibo mi va storto. Se devo pagarti, cucinarti, masticarti, finanche digerirti e il tutto per cagarti di lì a otto ore devi spiegarmi quale sia il tuo contributo in questo rapporto. Così mi tenevo al minimo e da qualche tempo arrotolavo di tanto in tanto un paio di sottilette, qualche patatina fritta stantia come i nodi dei marinai, ogni tanto del formaggio. Ma a pensarci meglio probabilmente erano ancora una volta le stesse sottilette solo che troppo sbronzo finivo per confonderle. Sia come sia ovviamente questo aveva influito sul mio aspetto. Alto ero alto, ne ero certo, non mi lavavo da un po’ quindi non potevo essermi ritirato e comunque ancora non puzzavo, non a livelli di guardia almeno. Diciamo che solcavo con serenità il limite del metro e ottanta. Pesavo quel che pesavo che non era ormai molto, dato che la mia principale fonte di sussistenza erano le intenzioni. Ne avevo una lista lunga cinque, tutte sagge e da rispettare ma fino a quel momento avevo rispettato unicamente l’intenzione di prenderne nota. E comunque non avevo pidocchi, semplicemente venivo dal Jersey e quando nasci nella principale città del mondo e comunque sei di serie b, questo cosa ti suggerisce sul possibile andamento della tua vita? Non che non c’avessi provato ma nella vita c’era troppo poco cuore e troppo lavoro e come ho già avuto modo di dire un lavoro già ce l’avevo, dalla tenera età di anni due. Un lavoro usurante, ineluttabile e tuttavia retribuito malissimo: quello di sopravvivere.
In quanto a me c’è una premessa da fare: da qualche tempo a questa parte il cibo mi va storto. Se devo pagarti, cucinarti, masticarti, finanche digerirti e il tutto per cagarti di lì a otto ore devi spiegarmi quale sia il tuo contributo in questo rapporto. Così mi tenevo al minimo e da qualche tempo arrotolavo di tanto in tanto un paio di sottilette, qualche patatina fritta stantia come i nodi dei marinai, ogni tanto del formaggio. Ma a pensarci meglio probabilmente erano ancora una volta le stesse sottilette solo che troppo sbronzo finivo per confonderle. Sia come sia ovviamente questo aveva influito sul mio aspetto. Alto ero alto, ne ero certo, non mi lavavo da un po’ quindi non potevo essermi ritirato e comunque ancora non puzzavo, non a livelli di guardia almeno. Diciamo che solcavo con serenità il limite del metro e ottanta. Pesavo quel che pesavo che non era ormai molto, dato che la mia principale fonte di sussistenza erano le intenzioni. Ne avevo una lista lunga cinque, tutte sagge e da rispettare ma fino a quel momento avevo rispettato unicamente l’intenzione di prenderne nota. E comunque non avevo pidocchi, semplicemente venivo dal Jersey e quando nasci nella principale città del mondo e comunque sei di serie b, questo cosa ti suggerisce sul possibile andamento della tua vita? Non che non c’avessi provato ma nella vita c’era troppo poco cuore e troppo lavoro e come ho già avuto modo di dire un lavoro già ce l’avevo, dalla tenera età di anni due. Un lavoro usurante, ineluttabile e tuttavia retribuito malissimo: quello di sopravvivere.
“Il piccione”, così lo avevo soprannominato, si chiamava
T.J. Appena me lo confessò non potei fare a meno di chiedermi, come sempre
accadeva alla presenza di un piccione, per quale stronzo motivo Barba Bianca
avesse deciso che tutti i piccioni del mondo si dovessero chiamare T.J. Non
avevo trovato mai una risposta a questa domanda ma non disperavo che la sera
avrebbe portato illuminazione circa questa diatriba che dilaniava il mio scroto
da sempre.
T.J. era fuori di sé un po’ per l’oltraggio e un po’ perché
un piccione si incazza sempre quando gli fai credere di avere una mollica di
pane che in realtà non è mai esistita. È la sua natura.
Mi fissava. Impazzito di rabbia. Lo fissavo di rimando,
imperscrutabile ma sperando come un pazzo dentro di me di carpire una ruga di
timore sul suo volto. “Credi, credi cazzo, che io abbia la madonna in queste
due carte”.
Seguitava col fissarmi.
E io di rimando.
Non passarono meno di venti minuti. Whiskey dilatando.
E alla fine la fottuta ruga si palesò. Si stava
convincendo che fossi un cavallo pazzo. Uno di quelli che possono tutto, quando
vogliono. Ero appena diventato lo scolaro dotato che non si applica. Il genio
sregolato. Il patrigno che gli scopava la madre senza prestargli la cortesia di
prenderlo sotto il proprio cognome.
Avevo vinto. Bastava una spinta leggera ma ferma. Bastava
instillare l’ultima idea. Il colpo vincente.
E quell’idea fu: pisciare. Non scherzo. Tutto nella vita
ha un costo, anche il whiskey e quel costo è un’insana ma tuttavia non
aggirabile necessità di mingere come un toro dopo una corsa a Pamplona. Usai la
cosa a mio vantaggio. Eravamo tutti seduti al tavolo, appena fuori dal retro
del jazz club. Qualcuno suonava di un cuore rotto, delusioni d’amore in attesa
di riempire lo stesso letto con una nuova altra delusione. Per un po’ scopate e
intontimento, poi dolore e poi una nova canzone per il jazz club. This is it. Comunque
saltai in piedi ritto come un grillo, sempre fissando T.J. negli occhi.
Cominciai ad allentare la cintura, sempre fissandolo. Cadde. Poi i pantaloni.
Tirai fuori una verga cui la fantasia, su una lavandaia della zona nella quale
mi ero perso quando gli avevo mandato la vasca (intercalare che sottintende
alla chiamata di un “all in”) una quarantina di minuti prima, aveva avuto un
apprezzabile effetto rinvigorente. Tosto ma ancora non così barzotto da svelare
l’inghippo, un buon dodici centimetri a riposo. T.J. impallidì, io non feci
altro che girarmi e lasciare che fosse. Il whiskey fece il resto. Una pisciata
colossale, tre minuti di applausi. Un nuovo corso d’acqua in città. Rinfoderai
e tornai a sedermi. Lo sguardo non si distoglieva. T.J. era pietrificato. Avevo
vinto.
E no cazzo.
Venne.
Aveva coppia di re. Fanculo Freud e la psicologia. Mi
stavo per scontrare contro una coppia di re e in mano avevo un due e un nove
ramingo, il tutto neanche baciato dal medesimo colore.
Tant’è, si andò. Portammo i nostri resti al centro del
tavolo, appena sotto le due coppie girate. Non dipendeva più da noi. Stava al
dealer, un armeno anch’esso, e a Barba Bianca, che però raramente si
interessava di tavoli verdi, lasciando così sempre più spesso nuovi adepti alla
sua controparte.
Il dealer girò.
Re. Carta inutile. Due di cuori.
Ero fottuto come poteva essere fottuto un impiegatucolo
che s’innamorasse di una stella di Broadway.
Avevo una coppia di due e una ciofeca. Lui un tris di
fottuta nobiltà regnante.
Quarta carta. Un altro due. “Cool” ma non basta. Avevo
l’impressione che Barba Bianca si stesse sintonizzando sul canale che trasmetteva
le mie sconfitte e come di moda in questi ultimi tempi si divertisse nel
contribuire alla disfatta quotidiana bruciandomi le antenne per poi osservare
dove andassi a sbattere.
Mascherai questo e altri pensieri con lo stile che mi era
rimasto. T.J. intanto già stringeva mani con atteggiamento da neosindaco, promettendo
un giro a tutti i presenti, che lui “i villanzoni li regola così”, sentenziò.
Quinta carta. Il fottuto re di cuori.
T.J. aveva appena fatto poker. Realizzato l’avevo realizzato,
per accettarlo sarebbe servito tempo. Lui era paonazzo come un irlandese al
tramonto di San Patrizio, gli altri ancora in attesa di pronunciarsi a seconda
del vento che avrebbe tirato. Rischio di botte da orbi che non valeva neanche
la giocata iniziale. Aria carica.
T.J. ruppe gli indugi e cominciò a strepitare come un
disgraziato. Saltava, se ne bullava, barcollava senza ritegno. Io accavallai le
gambe e m’accesi una paglia. Poi il punto di rottura.
Il piccione preda del piccione. T.J. non si accorse che
tutto quel dimenarsi farsesco aveva causato l’uscita di almeno sei carte dalla sua
manica. Pensava di averla stretta al punto giusto ed era così, così almeno
prima che gli mandassi quella vasca. Brutta storia la psicologia, l’ansia, le
nevrosi. Un gesto da nulla come sbottonarsi la manica sovrappensiero, già, ora
restava una guerra da combattere.
Sembrava proprio che gli assi non fossero gli unici
fortunati a poter albergare in certe maniche. T.J. era sbiancato e
nell’incredulità generale, da buon piccione, aveva provato ad anticipare tutti
blaterando che quelle carte erano cadute dal tavolo e che quegli sguardi sempre
più torvi non avessero proprio un bel cazzo di niente da imputargli. Credeva
disperatamente nella propria menzogna e come dargli torto, era appena diventata
la sua mano verso la salvezza. Una mano non vincente, ma del resto che volete
farci con la psicologia.
Sfortunatamente per T.J. non ero stato l’unico ad
assistere alla scena, come unico sarei stato confutabile ma in quel caso ogni
singola testa, pensante o meno, aveva sgamato la truffa. Fine dei giochi. T.J.
venne assalito da un branco di onesti furenti sconfitti. Nessuna legge farlocca
o presunzione del cazzo. C’era solo la realtà adamantina del vivere cannibale. Quella
della scaltrezza, della forza ma anche dell’onesta verità che o ce la fai o ne
paghi il conto. Prese tanti schiaffi quanti tutti i soldati del mondo dopo il
gioco che portava il medesimo nome. E venne per sempre bandito dal tavolo del
“Flash club”, questo il nome del Jazz club. In ultimo venne spogliato di tutti
i suoi verdoni a parziale risarcimento di un danno che andava ben più in là del
denaro. Rubare tra chi non ha niente è l’unico reato che nessuno perdona mai
perché umilia la gentilezza del passaggio su questa terra. A furor di popolo
ripresi i miei soldi e una parte di quelli di T.J. Il resto venne ridiviso
entro la compagnia che tuttavia si autotassò di un dollaro ciascuno, il totale
dei quali mi venne consegnato, a loro avviso, per il mio modo gentile di
correre come un fulmine e schiantarmi come un tuono. A fine a partita, partita
nella quale ero entrato con cinque dollari, ne uscivo con un gruzzolo di ottantacinque
bigliettoni fumanti. Non sarebbero durati più di quanto sarebbero durati quei
cinque o quegli zero, ma la soddisfazione rimaneva e qualche sfizio, che poi è
un vizio perché chi vive senza vizi non ha vissuto mai, attendeva un certo
grado di soddisfazione.
La partita era finita e avevo vinto senza vincere ma
anche avevo perso senza perdere. C’è qualcosa che riassuma meglio il senso
della vita?
Terminati i convenevoli, i saluti, insomma lanciato un
“Ciao” generale già a una distanza che mi mettesse al riparo da risposte o
contatti fisici, svoltai il polso per dare una scorsa all’orologio. Due e trenta
del santissimo mattino che rimaneva tale anche se era talmente nero il tutto
che di un gatto nero avresti visto solo la sentenza delle sue pupille.
All’improvviso un flash “Il vecchio Joe chiude un quarto
alle tre, che poi chissà perché mai un quarto alle tre, o alle tre o alle due e
mezza. Diamine un po’ di simmetria, cazzo”. Mi ripresi da quell’inutile
vaneggiamento e continuai “Sono a sei isolati dal vecchio Joe, alle due e mezza
di mattina e l’unico mezzo su cui potrei fare un qualche tipo di affidamento è
la volante della polizia per schiamazzi notturni che dubito ricomprenda il
vecchio Joe nel proprio itinerario. Tuttavia se sveltisco il passo e i polmoni
si dimenticano il passato, potrei farcela”. Mi bastava questa possibilità, io
che avevo sempre odiato ogni sorta di condizionale, di augurio slegato dalla
volontà.
Iniziai a correre ma sarebbe meglio dire caracollare con
stile. E per Dio a due minuti dall’ineluttabile mi presentai davanti al vecchio
Joe che però aveva già chiuso “merda secca”. Del resto pensai “Vecchio Joe non
sarà stato un nome a caso, chi cazzo sceglierebbe di chiamarsi vecchio Joe non
essendo né vecchio né un Joe”. La delusione era presente nei muscoli
infiammati, nella piva nel sacco che continuava a ripetermi che anche stasera
avrei bevuto domani e quindi vissuto e scritto e tutto il resto. Ero a pezzi.
Mortificato. “Fanculo”, pensai, sono stato appellato in tanti modi, pochi
quelli gentili, ma mai come uno che resta attaccato alle cose materiali; così
girai i tacchi e ripartii per i quattordici isolati che mi separavano dal mio
loft-stamberga nel quartiere “Baudmere” datomi in comodato dal vecchio Ford,
amico di mille battaglie alle quali mi ero spesso presentato in ritardo. Un’ora
dopo avevo percorso circa cinque isolati, la mente cavalcava al ritmo dei pensieri
interrogandomi sui canguri del Tennessee, ammesso che in Tennessee avessero mai
visto dei canguri e che questi fossero diversi dagl’altri canguri del globo. A
una certa che non saprei incastonare in un quando ma che posso per certo
asserire ci fu, una voce gentile mi interruppe “Perdoni Sir”. Dite, chi di voi
al sentirsi chiamare “Sir” o al solo dubbio che Sir e il proprio nome potessero
venire legati insieme nella stessa frase non si sarebbe voltato? Infatti, solo
io e così feci. Proseguii ignorando una stupidissima voce che invoca un Sir in
un’epoca in cui al massimo potevi incappare in qualche servo servetto del cazzo.
La domanda di Sir alle mie spalle non andava esaurendosi e dacché lontana mi
accorsi dopo poco come si facesse sempre più pressante, concitata ma
soprattutto paurosamente vicina. Fino a che il pericolo mi fu dinnanzi e io non
potei più ignorarlo.
“Sir, mi scusi”.
“Signora, la blocco subito, io non sono Sir, al massimo
porta guai. Ma ne ho visto uno correre in direzione opposta alla nostra un paio
di minuti fa. Avendone la voglia, se si sbriga, credo possa riacciuffarlo”.
Senza bisogno di sottolinearlo, stavo mentendo
spudoratamente al cotechino che mi si era palesato dinnanzi. Sulla quarantina.
Un metro e sessanta per difetto sul quale era mal distribuita una settantina di
chili. Agghindata come un confetto nuziale e con sul viso dipinta l’espressione
di chi crede all’amore e agli unicorni. La situazione s’era già fatta fin
troppo spinosa per me. Avevo trenta secondi di sopravvivenza garantiti, il
resto sarebbe stata mera improvvisazione.
“Sir non faccia così. Stavo cercando proprio lei”.
“Signora...”
“Signorina...”
“Quando dici il caso”, pensai, per fortuna senza condividerlo.
“Signorina, dubito che lei o chiunque altro possiate cercare uno come me”.
“Perché lei come chi sarebbe? Io stavo cercando lei non
uno come lei”.
Ormai incuriosito (e fottuto) azzardai l’unica domanda
che avesse un certo senso di essere posta “E per quale motivo mi stavate
cercando?”
“Per nessun motivo”.
Tirai un sospiro di sollievo “Allora arcano risolto.
Nessun danno, nessun fallo. Mi stia bene”.
“Ho detto che stavo cercando lei non che la stessi
cercando per un qualche motivo”.
“Signorina se volesse concedermi la grazia di essere meno
enigmatica...”
“Lei è...”
“Non amo che si abusi del mio nome, me lo sussurri
all’orecchio”. E così fece.
“Sì sono proprio io”.
“Allora vede che stavo cercando lei”.
“Vedo, vedo ma mi è ancora oscuro il motivo della ricerca...”
“Mi pare ovvio: del sesso”.
Mancò poco che mi strozzassi “Signora, Signorina, io non
so che tipo di informazioni lei abbia ricevuto ma...”
“Poche ciarle Sir. Io l’ho vista dal ponte e lei è un
uomo che campa per sfatare”.
“Sfatare cosa?”
“Tutto. Mi dica se sbaglio, ma lei tira a campare come se
dovesse svegliarsi”.
“Signorina, e lei tutte queste belle cose le ha capite
fissandomi dal ponte?”
“E da alcune lettere ricevute...”
“Mi spiace ma io non mando lettere da un pezzo. Non
saprei a chi inviarle”.
“E prima di quel pezzo?”
“Escludo possa conoscere il pezzo prima di quel pezzo”.
“Un pezzo che si chiama Janiè per caso?”
“Va bene facciamola finita. Chi cazzo sei e cosa diavolo
vuoi?”
“No, no Sir, niente rabbia. Io conosco Janiè, la quale mi
ha detto che lei è un uomo sbiadito non utile all’amore ma utile per farci
arrivare il prossimo. Un utile viatico, diciamo. Non so bene cosa questo voglia
dire, ma lei mi ha assicurato che non avrei sbagliato a contattarla per
arrivare al mio scopo”.
Janiè maledetta, ancora una volta. L’unica donna che si
fosse insinuata nel mio cuore e ne avesse fatto polpa buona per i piccioni. E
pensare che il lato comico della cosa è che in principio neanche mi aveva
sfiorato l’idea di legarmi stabilmente a lei. Poi gli eventi, la chimica, la
pazzia di entrambi. Ho vissuto solo quei mesi con lei. Poi lei si è risvegliata,
è tornata o partita, a scelta. Io no. Da questo, il resto.
“Signorina parliamo di tanto tempo fa. Un tempo nel quale
non ero in me e del quale non ho alcun piacere di riavere ricordo”.
“E lunge da me volerla riportare a tiro di un antico dolore.
Vorrei solo ciò in cui lei è più abile al prezzo che riterrà più opportuno”.
“Signorina, davvero, non è il caso”.
“La prego, lo desidero con tutta me stessa. Come può
immaginare non resto sovente preda di pretendenti”.
Non ce la feci più, scoppiai “Ti rendi conto di quello
che mi chiedi? Tu vuoi che io t’imprima la mia anima accogliendo in rimando la
tua. Dare vita alla vita. Darti, in realtà, una scappatoia da questo mondo
infame. Questo mi chiedi”.
“O cielo non pensavo che Janiè rappresentasse così tanto
per lei”.
“Non è così infatti”.
Desumo smascherò in fretta la mia bugia, ma ebbe cuore
nel non rinfacciarmi questo successo.
“La prego, si corichi con me questa sera. Quello che ne
verrà, qualsiasi cosa, sarà abbastanza. E il prezzo lo faccia lei”.
Non c’è niente di peggio di quest’ultima frase per uno
scrittore fallito e un ubriacone in carriera. Lo feci: “Duecentocinquanta
dollari”.
“Andata”. Non esitò un secondo.
“Andata”, ripetei più per forma che credendoci per
davvero. A lei un po’ della mia finzione e a me un po’ di vita per qualche
tempo. Che poi chissà perché aspettò quell’ora e quel posto per contattarmi.
Come poteva sapere che lì mi avrebbe trovato, stronzo galleggiante sulla faccia
della terra. Ero ben conscio sin da subito che non lo avrei mai scoperto. Il
caso, il cazzo. Tanto bastava. E duecentocinquanta dollari.
La seguì fino a casa sua, che curiosamente non era
distante dai pressi del ponte dove si era svolta la nostra contrattazione ma
neanche dalla mia abitazione. Quando giungemmo si limitò a proferire un
“Arrivati”. Una classica casupola della bassa borghesia. Due piani perché lo
spazio di uno non bastava se non sommato a quello dell’altro. Mattoni rossi,
tetto in assi bianche annerite dal tempo e dal consumo. Una bandiera americana
sgualcita e alcune di quelle pietre orientali che tintinnano al suono del vento
appese a una veranda appena abbozzata.
“Entriamo”, sentenziò.
“Entriamo”, acconsentii io.
Non ebbi grosse sorprese; la casa riportava senza dubbio
all’anima della sua proprietaria, almeno nella parte cui fino a quel momento
avevo avuto accesso. Il salotto era tutto rosa e color confetto e speranza.
Volevo vomitare. Conchiglie e peluche in ogni dove. Infiniti libri che
ciarlavano di miti e cazzate. Nessun classico. Nessun mio libro. Niente
televisione. Un tempio per creduloni di periferia. Lei si accorse del mio
pensiero, ne sono certo. Ma non mi redarguì.
Non avrei visto altro della casa, altro, oltre che
ovviamente la camera da letto. La madame o signorina, o qualunque altra cosa rappresentasse
per me quella sera, non me l’avrebbe resa così semplice, attraverso la
gentilezza, s’intende. Mi mise a mio agio come se fossi io quello a disagio in
quella specifica situazione. Curioso come la gente lenisca il prossimo con ciò
che dal prossimo agognerebbe ricevere.
Mi offrì da bere. Una birra. Poi un’altra. Un’altra
ancora. Dello champagne. Del whiskey. Mi allontanai con la scusa di mingere, in
realtà vomitai, così avrei unito allo stupore alcolico la sensazione gonfia e psichedelica
tipica del post sbocco. Tornai da lei e bevemmo ancora. E lei parlava e parlava,
più per calmare se stessa che per comunicare realmente. Ciarle da nulla. Ciarle
notturne. Da sbronzi. Quando senti tutto, la luna è vicina e tu abbai ma non è
mai così reale e forse è così solo perché sei immerso in un mondo che non
esiste ma che nonostante questo non si esime dallo svegliarti tutti i giorni e
col mal di testa, per giunta.
Immaginai che il momento fosse giunto quando dopo un colpo
di tosse a raccolta delle energie residue unì un discorso sull’eleganza dei
tessuti damascati a un pizzo particolare di una coperta che teneva in camera. E
infatti puntualmente lì ci recammo. La coperta era una merda, poche ciarle e
fanculo il damascato. Presi la palla al balzo.
“Madame, perché non si mette a suo agio e mi lascia
appartare la camera nel modo più accogliente possibile?”
Notai che la tolsi da una situazione di palese imbarazzo
e infatti senza proferire verbo, ma con solo un impercettibile cenno del capo,
annuì e andò a “prepararsi” in bagno.
Quanto al mio “appartare la camera”, mi limitai a
scostare di un quarto quelle rivoltanti lenzuola e mi spogliai cacciandomi
sotto di esse da quella che avevo deciso essere la mia parte del letto.
Un’ultima accortezza che non c’è quasi bisogno di rimarcare, una donna che
paghi per la cappella di un uomo e sia per giunta grassa non ha alcuna voglia
di una luce accesa che le ricordi ambo le cose, ma questo è dannatamente vero
anche per un uomo senza destino in un mondo non suo, che sopravvive vendendosi
alle tristezze altrui. Luce spenta.
Dopo qualche minuto la porta del bagno scricchiolò e lei
ondeggiò fino alla soglia della camera da letto che le era improvvisamente
divenuta straniera. Si fermò indugiando. Dal canto mio, tentai di far uscire la
voce più calda e rassicurante possibile e le chiesi con tono fermo ma gentile
di raggiungermi. Obbedì diligente ma visibilmente impacciata. Impaccio che
tentò di esorcizzare rincominciando a descrivermi ogni singola attività che
aveva svolto in bagno. Sono sicuro che in parte volesse omaggiarmi col racconto
dei preparativi, ma non farei questo nella vita se questo genere di racconti
avesse una qualche utilità per la mia tragedia. Così le appoggiai una mano
ferma sulla bocca. Sempre gentile ma ferma. Capito il concetto la tolsi e posai
le mie labbra sulle sue. Dolcemente, come un pegno, come un segreto sussurrato.
Come solo il primo bacio è e come tutti gli altri tentano di ricreare.
Dapprima, sorpresa, abbozzò, poi si limitò a rispondere come i pallettari nel
tennis, quelli che si preoccupano unicamente di rimandare la pallina dall’altra
parte, senza cura per il punto e, vien da sé, per il trionfo. Ma poi. Non puoi
tenere imbrigliata una donna troppo a lungo per quanto grasso la circondi.
Esplose. Tutte le gioie umiliate, tutti i desideri. Tutto l’essere donna al di
là di una prigionia anche se autoimposta. Tutto.
Affossò le sue dita attorno alla mia nuca e cacciò la sua
lingua ben dritta nella mia bocca come chi voleva viversi la sua notte che non portasse
rimpianti nello specchio del caffè il giorno dopo. Non mi tirai indietro e al
suo lievitare, lievitai, e con mia grande sorpresa sentii un prorompente
formicolio alle vene dell’argano. Duro, tosto, sull’attenti come un marine
sempre fedele. Non passò molto di lì a che la mia anima di maschio ruggisse. La
rivoltai come un calzino e feci per cacciarcelo dentro. La sua mano sicura m’afferrò
l’argano ramingo e lo condusse entro mura sicure. Era fatta. Ci saremmo scopati
addosso tutta la notte. Con licenza d’amore per uno o per l’altro. O per
nessuno.
Il mattino dopo non ci fu mai. La notte, finito il sesso,
esaurita l’eccitazione e con l’aria ancora carica che inebriava le nostre sazie
narici, l’avevo avvolta in un abbraccio e lei si era sciolta. Persa in lacrime
e risa alterne e isteriche. Raccontandomi la sua vita e le sue disgrazie, ma
anche la sua forza nel farcela. Mi parlò del suo amore e di come quel vestito
di carne le strappasse tutto il rispetto che vedeva riconosciuto agli altri. Se
solo avesse saputo quanto poco rispetto vi era anche per gli altri, pensai. Disse
che mi vedeva e che aveva capito che io pure ero in qualche modo prigioniero di
un vestito che mi strizzava ogni sorta di velleità, solo che diceva “per te è
più difficile perché il tuo problema è dentro”. Feci orecchie da mercante. Abbozzai,
la abbracciai e la baciai. Non ci cadde mai, ma finì per addormentarsi e tanto
bastava. Il mattino dopo, come annunciato, non ci fu mai. Lei si era già
alzata. Uova e bacon mi attendevano in un piatto sul tavolo in cucina. A fianco
la somma pattuita e un bigliettino “Grazie”.
Non toccai il cibo, anzi vomitai, ma senza ebbrezza
questa volta. Dei soldi pattuiti raccolsi un solo dollaro simbolico. E lasciai
a mia volta un biglietto di congedo “L’amore spesso dipende dall’accuratezza di
un postino. Qui non c’è rimasto più niente per nessuno. Ma tu hai il sette per
cento di possibilità. Se credi o se non credi. A scelta”.
Lasciai la porta chiudersi dietro di me, con la fiducia che ciò si sarebbe puntualmente verificato, ma ancora senza la voglia di controllare. Ero di nuovo in strada. Di nuovo solo.
Lasciai la porta chiudersi dietro di me, con la fiducia che ciò si sarebbe puntualmente verificato, ma ancora senza la voglia di controllare. Ero di nuovo in strada. Di nuovo solo.
Anche io non ero nient’altro che un mostro di quel mondo
che tanto scacciavo. Ma lo sapevo, almeno lo sapevo, e cercavo di non uccidere
più anime di quante Dio e Satana si spartissero in una guerra a loro immagine e
somiglianza, che nessuno gli aveva chiesto di intraprendere.
Jacopo Landi
Questo pezzo è stato scritto sorseggiando numero due di birre Italian Ipa pale ale.
Ascoltando a ciclo ininterrotto Mighty Sam McClain – “When The Hurt Is
Over”.
Nessuna cicciona è
stata realmente abusata, ma neanche baciata da dieci minuti di piacere, e
comunque dubito che apprezzino essere chiamate “ciccione”. Credo basti un poco
di gentilezza, di tatto, al più di sottrazione dal cattivo gusto
dell’immediato.
Per la
realizzazione di questo racconto si ringraziano: la mia malattia mentale,
entrambe. I settantaquattro cents. che ho in tasca e le donne di malaffare che
hanno scelto di lenirmi con gentilezza.
Commenti
Posta un commento