•• Il vizio dei cavalli perdenti ••
“Perché?”, mi chiese Derek
"Perché dopo non è ora e non mi ricorderei cosa
stavo pensando adesso”, risposi a rimarcare l’ovvio
“Tu sei sempre tu. Ieri, oggi, che differenza fa?”
“Non è questione di differenza è questione di sentire e
io: ora sento e ora scrivo. Levati dalle palle”
“Ora. In un ippodromo? Con la corsa che parte tra tre
minuti?”
“Ora. Fanculo i cavalli. Tre minuti sono una vita”
“Fanculo i cavalli? Ti sei bevuto il cervello?”
“Può essere. Sì fanculo. Lo sai come sono ‘sti cavalli..”
Rassegnato Derek tentò di cambiare strategia:“Vabbè ma su
quale punteresti ?”
“Su quello perdente”
“Che dici? Perché?”
“Perché se perde ha fatto il suo ma se vince paga il
doppio, almeno”
“Ma se un cavallo è detto perdente è perché di vincere
non è che c’abbia proprio il vizio”
“Ma io sì. C’ho il vizio di puntare sui perdenti, mi
piacciono. Con la loro classe nostalgica. L’ineluttabile destino contro cui indomiti
cozzano la capa”
“I perdenti? Ci devi mettere la poesia proprio in tutto?”
“Non ce la metto io, figurati. Solo non mi riesce di
voltare il muso dall’altra parte quando ci vado a sbattere”
“Se se se. Comunque il perdente è dato sette a uno”
“Il perdente non è mai dato, ti ingannano. Perderà. E
comunque bada al nome, conta solo quello”
“Non credi che il nome sia solo un inganno per
ingolosirti e fotterti meglio?”
“Bravi loro. Bada al nome, nessuno se lo sceglie eppure
di rado tradisce”, chiusi il punto io.
“A proposito”, disse Derek come ridestatosi da un sogno, “Come
è finita quella mano a poker?”
“Male. Ho perso”
“Chiaro ma come hai fatto?”
“Perdendo. Due sono i finali possibili nel poker, non si
scappa. Al massimo dopo. ”
“E’ il come che m’ingarbuglia”, ribatté non pago
“Storie da parati di sigarette e cazzate. Credevo di
spaventarlo con un asso scarno e invece lui ci aveva un dieci fornito e la
fortuna dalla sua”
“Colpa della sfiga, insomma..”
“Colpa d’uno stronzo. Che conosci bene per altro”
“Datti pace”
“Non me la sono tolta mai”
“E allora è andata come doveva andare”
“E’ andata come poteva andare. E basta”
“Beh il perdente..”, disse Derek tornando agli equini per
togliersi un tanto dall’impaccio “..l’è dato sette a uno”
“Me lo hai già detto”
“Sì ma non mi convince il nome”
“Hai appena detto di non credere nei nomi.”
“M’hai sparato un pistolotto tanto..Non mi ci va di
puntare sghei su un ronzino con un nome stronzo”
“E quanto stronzo sarebbe questo nome?”
“Astro del ciel.
Che dici?”
“Beh con Barba Bianca hai il cinquanta per cento di
possibilità che ti dica bene, come con la roulette ma senza uno che faccia del
fotterti una questione di principio. Lui si accontenta della vita ma è un
affare più lungo nel mentre è abbastanza pacifico.”
“Sarà..”
“Va’ che per me puoi puntare sulla qualunque”
“Ma i soldi sono anche tuoi”
“Conta di no”
“Ma lo sono”
“Te li regalo”
“Accetto”, sentenziò in punta di fioretto
“Adesso caca il nome del prescelto”
“Beh che m’hai regalato li soldi mi pare una bruttura
cambiare cavallo. Vada per Astro del ciel”
“Vada per coso quello”
“Signorina, cinque su Astro del ciel vincente nella
prossima”, disse Derek rivolto alla tizia della ricevitoria
“Ecco a lei”, rispose la tizia, gentile, in uno squittio
anonimo, porgendogli la ricevuta.
“Una birra e al palo”, sentenziai. Derek mi seguii senza
fare storie.
Birra era stata e palo era palo, accasciati com’eravamo a
‘sto povero cristo in attesa dell’annunciato verdetto.
Lo sparo.
Le gabbie aperte che sbattono come pazzi d’amore in un
notte di luna piena a quel tanto di distanza che basta affinché le preghiere restino
pezzi d’inascoltata bravura
Astro del ciel è più solo e ultimo di Giuda il giorno del
crocefissione. Tutto secondo i piani. Stanco e prevedibile Barba Bianca. “Tanto
lo so come andrà a finire”, pensai.
A cento metri dal traguardo Astro del ciel scatta come
punto nel buco nero dal più ardente dei tizzoni.
Se li mangia tutti, uno dopo l’altro, avido come un’ex
moglie. Il buon figlio di puttana arriva a tagliare il traguardo con un buon
venti metri di vantaggio sul secondo. E bravo Barba Bianca, prevedibile ma con
stile
“Cazzo, Jack, cazzo. Abbiamo vinto. Ho vinto”
“Ah l’altruismo, bella qualità”, mi limitai a pensare.
“Bravo Derek. Quanti sono?”
“Moltiplica cinque per dieci più sette per quattro meno
le sigarette e le sottane…Uhm..Almeno duecento bigliettoni”
“Sei sicuro?”
“Il cazzo. Chi se ne cura. Andiamo a riscuotere. Andiamo
a scopare”
“Andiamo”
Andammo.
Duecentocinquanta dollari per una giocata da cinque. La
giornata era fatta e restava da farsi solo una decente scopata.
“Jack, Ginny non s’incazzerà?”
“Derek, Ginny è una donna e le donne s’incazzano se non
s’incazzassero si chiamerebbero uomini”
Belle bestie loro, capaci di fedeltà e onore talvolta fino a un po’, almeno fino a sazietà, conclusi dentro di me.
“Sicuro di voler venire?”, rimbrottò Derek non pago
“Dimmi sei Padre Brown? Non sono convinto di niente ma abbiamo
vinto con un perdente e la cosa va’ celebrata. Non si scherza sui perdenti, mi
bevo un nero poi vedrò che risponde la verga”
Era deciso. Così fu. Usciti dal parcheggiò dello stadio
terminammo questa conversazione salendo in macchina con destinazione la bettole
del vecchio Joe.
In venti minuti ci fummo ed entrammo. Il vecchio Joe era
dietro al banco, rintanato nel suo metro e cinquanta. Chissà se il vecchio Joe
aveva mai avuto venti minuti, per fare ciò che voleva, per pensare, per perdere
tempo. Ah il vecchio Joe, Caronte di ubriaconi ed esattore di peccati espiati per
ingannare il tempo
“Ciao Joe”, dissi, subito seguito dalla copia di Derek
“Argh”, la risposta del vecchio Joe, lupo di mare impunito
che non aveva mai visto neanche la sabbia di una spiaggia.
“Joe, whiskey e puttane, in quest’ordine”, ricapitolai
“Lo whiskey è qui. Il nero’”
“Yessa”
“Le puttane hai da chiamarle, sono dietro al parapetto
con due colletti di quelli gonfi”
“Cominciamo allora col whiskey”, sentenziai e dietro
Derek ricco pappagallo del cazzo.
Uno.
Due.
Di whiskey. Di neri. S’intende.
Di whiskey. Di neri. S’intende.
“Che poi se Dio è infinito ma lo sono anche i numeri non
verrà mica fuori che Dio s’è auto fottuto con la logica? Si spiegherebbe perché
i conti non tornino.” Sputò Derek in un impeto filosofico non richiesto e mal
seguito
“Puttane? Puttanacce!!”, tagliai corto in risposta
Due scapestrate patacche, due delle più chilometrate del
quartiere. Ce n’avevo proprio voglia.
“E due patacche avremo.”, chiosò Derek voglioso di
compiacermi, che pronto uscì i dindi sonanti, il piffero più adatto data l’occasione.
Non ci volle molto a che i topi, ipnotizzati, si palesassero. E infatti le due
si stagliarono ben presto al di qua del parapetto. Archiviata ormai la pratica
dei colletti, non particolarmente memorabile se non per il compenso a giudicare
dall’espressione dipinta sul volto d’entrambe. Si avvicinarono sensuali per
quanto fosse loro possibile ma provate dalla cavalcata appena compiuta.
Quella di Derek gli s’avvinghiò prima che la potessi
squadrare. Derek era di bocca buona e quella di bocche ne aveva almeno tre.
La mia era una malandrina del quartiere. Una tizia d’una
tacca che conoscevo per lungo corso. Mary Jane il nome. Alta sul metro e
settanta, ricciola. Poche tette. Rotonda al sotto. Porca. L’inferno le piaceva
e non sprecava manco un cliente per meritarselo tutto quanto. L’amore pagava
troppo poco e creava dipendenza, ben presto spariva il Flash e usciva la mera
sopravvivenza. Quindi perché non sfruttarlo, per quanto possibile? Logica
stringente, brava EmJ.
La presi e insieme percorremmo il corridoio fin oltre il
parapetto e dentro a una stanzetta alla buona, perfetta per lo svolgimento di
pratiche di quella natura
“Mary Jane fammi nà pompa che c’ho vinto ai cavalli e m’aggia
‘a scurdà”
Mi respirò addosso due secondi. Che io c’avessi un debole
per Mary Jane era cosa risaputa. Bella, bella e dannata. Bella e vuota. Bella a
niente. Ma tant’era.
Mi respirò addosso due secondi. L’argano in fiamme. “Canta
le gesta di Troia perché qui stasera non si fanno prigionieri”, pensai in un
simbolico dialogo tra me e il mio minchio ramingo. Il tempo di lanciare alla
casaccia il senno, come un soprabito di poco conto, e fui pronto. Lei invece fu
contro il muro. L’argano cacciato giù in gola. Non un lamento, non un
rimprovero. Leccava e ciucciava. Contenta. Felice di poter sciorinare tutto il
mestiere. Che ragazza. Che professionista. Baci e leccate e ciucciate che
l’amore sembrava quasi vero e a solo dieci dollari di distanza dalla venuta di
un bianco Paradiso. Di tanto in tanto me la prendevo per su e la sbattevo al
letto. Me la baciavo e le stracciavo i vestiti. Un dito nella passera. Due tre.
Il pollice del piede. E lei a gemere e invocarne dippiù. Dio mio quelle cosce
caramello. E ribaltarla ancora e ancora. Chiunque renda gioia il proprio lavoro
è un vincente, quale che sia il mestiere. Lei che mi chiamava amore, splendida
bugia venduta a ogni sorta di uomo, anche quello che vestivo io. Venne una,
quattro, cento volte. E io mille.
Finimmo comunque.
Caddi in un sonno profondo e lei con me. Accolta in un
sospiro di apprezzabile pace non duratura. Lei nuda e con le mutandine a
mezz’asta. Io nudo e con l’argano di tre quarti a metà tra Pisa e la gloria. Dormiva
lei. Incosciente e basta io. Entrambi assenti dal mondo dei vivi apparenti.
Dovevano essere passati una decina di minuti mal contati
e mi riebbi. Mi rinfilai alla casaccia tutto quello di cui mi ero spogliato. In
mezzo minuto ero fuori dalla camera ma non nel corridoio che mi c’aveva
condotto.
Ero per le strade di una città. Una città che avevo
conosciuto bene. Quella che m’aveva dato il Natale. Non passò molto prima che
riconoscessi la strada, era quella di casa, la casa di gente di un tempo, gente
che conoscevo bene.
Il portone, semi aperto. Entrai senza troppe domande. La
portineria, le scale, la porta di casa, socchiusa anche’essa. Un passo poi un altro.
Ero nell’anticamera di quella vecchia casa che ricordavo ancora così bene.
Troppo bene, ahimè.
Le armi bianche alle pareti, il corridoio alla mia destra. La mia camera, quella delle mie sorelle. Il bagno nostro sulla destra, quello dei nostri vecchi subito dopo e la loro camera sulla sinistra. Lo studio di mio padre in fondo sulla destra, col computer e lo spogliatoio a chiusura del corridoio. Poi sentii delle voci dalla parte opposta rispetto al corridoio
Le armi bianche alle pareti, il corridoio alla mia destra. La mia camera, quella delle mie sorelle. Il bagno nostro sulla destra, quello dei nostri vecchi subito dopo e la loro camera sulla sinistra. Lo studio di mio padre in fondo sulla destra, col computer e lo spogliatoio a chiusura del corridoio. Poi sentii delle voci dalla parte opposta rispetto al corridoio
”Sei tu?”
Figurarsi, non potevano parlare con me. Ero almeno
venticinque anni in ritardo. Non risposi
“Jack, sei tu?”
“Possibile?”, mi chiesi. Diamine che stessero cercando me per davvero ? Continuai a non rispondere
“Possibile?”, mi chiesi. Diamine che stessero cercando me per davvero ? Continuai a non rispondere
“Ma insomma chi è? Jack sei tu?”
Allora stavano proprio parlando con me. Non c’era
possibilità d’errore ma davvero poteva essere? Risposi senza pensarci su troppo
“Sì sono io, sono a casa”. Dissi quasi per convincermene definitivamente.
“Finalmente”, la voce di mia madre. “Vieni, è pronto”
“Arrivo”, risposi prontamente. Felice. Chissà cosa aveva
preparato quel giorno Peggie, la governante.
Presi l’altro corridoio quello a sinistra, una decina di
metri dopo la svolta sulla destra per la sala da pranzo, non potevo sbagliare,
mi ricordavo.
….
Al momento di svoltare a destra per entrare in sala da pranzo un fascio di luce accecante mi investii e io non potei far’altro che chiudere gli occhi di scatto. Sentivo ancora la voce mio padre chiamarmi “Ciao vecchio mio”, ma mi era impossibile rispondere o inquadrarne la figura. Quando la luce si fece meno violenta mi ritrovai in un corridoio, da un’altra parte. E rividi Derek, ch’era sorridente. Forse diverso. Forse solo venuto. Il cazzo tira di questi scherzi. Era a cinque passi da me in un corridoio ad arcate che qualche certosino aveva provveduto a illuminare ben oltre l’utile.
“Dimmi, che hai visto un fantasma?”, m’interpellò
Non potei trattenere un sorriso “Qualcosa del genere”, gli
dissi
“E che fantasma avresti visto?”, mi chiese seguitando
Sviai “Sai cosa?”
“Cosa?”
“C’è una cassetta, te le ricordi le cassette da radio, da
radio della macchina? Due lati e musica gracchiante?”
“Sì mi pare”
“Ecco ce n’era una che metteva sempre mio padre durante i
viaggi, uno in particolare, che compivamo una volta all’anno, sempre lo stesso
periodo”
“Che cassetta era?”
“Quella dei CCR”
“Cc
cosa?”
“Creedence
Clearwater Revival. Voci gracchianti scappate al Vietnam e tutto il
fascino dei fagioli del west”
“Embè?”
“Embè ci stavo pensando adesso. E’ uno di quegli oggetti
che mi riportano istantaneamente al passato”
“E’ bello questo, per te?”
“Straziante, direi. Ai limiti della tortura se questa ne conoscesse.
Ma tant’è mi riporta lì. E quindi mi riporta alla vita e poi mi uccide. Come un
sogno, uno di quelli che avrebbero una qualche valenza di essere fatti. E ogni
volta mi chiedo, se allora avessi saputo e avessi interrotto la cassetta e
avvisato mio padre, sarebbe cambiato qualcosa? Sarei cambiato io? O sarei
rimasto comunque il moccioso sul seggiolino che aspettava una canzone e
invocava il futuro?”
“Bada te, ’sti discorsi ti fottono la testa”, mi ammonì
“Stai tranquillo non c’è da preoccuparsi, son già tutto
fottuto ma non mi è ancora dato d’andare a fare in culo”
“E questo cosa ti dice?”
“Che ho puntato sul cavallo sbagliato.”
“Ridarei la mia intera vita fino ad ora per tornare dieci
minuti su quella macchina, dentro quel viaggio, coi Ccr in sottofondo. Era
tutto perfetto e io invocavo il futuro. Che ignobile stronzo”, questo mi
limitai a pensarlo ma non resi Derek partecipe, il quale per altro continuava a
fissarmi con aria interrogativa
“Ma tu che cazzo vuoi dalla vita?”, attaccò
“Andarmene quasi subito. E vivere per sempre”
“Ma tu non ce la fai propr…
Mi risvegliai. Nel letto. La puttana addosso. Succhiato
fino all’asso. Lei ancora tramortita.
“Sai quanto mi ha fatto male New York?”, le dissi
“New York? Di che parli?” Masticò via mentre si
stropicciava nel ritorno alla vita
“Di New York”
“Tu non ci sei mai stato a New York”
“Appunto”
“Ma che cazzo stai dicendo allora?”, ribatté
“New York è così. I biscotti sorridono e la gente si
suicida o si dà al Jazz che poi, sai la differenza..campi per raccontare come
sei morto e un giorno ci prendi.”
“Sei completamente pazzo”, sentenziò
“Può essere baby, può essere. Ma New York non è stata
gentile con me. Cià, stammi bene.” Le lanciai un decione, mi vestii e dopo un
rapido cenno me ne andai. Io e la mia generazione di mezzo, figli di disonesti
giostrai che ci avevano lasciato a gestire un diabolico parco divertimenti.”
Feci d’un fiato il corridoio. Il bar. Nessun cenno in
saluto, nessuno sguardo, niente a nessuno. Fui fuori
“Maledetti cavalli perdenti col vizio di vincere.”
Jacopo Landi
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