Un alcolista e una muffetta di nome Peggy Splendor
“..ed è così che abbiamo calato una muffetta dentro un
bordello ungherese...”
Risero tutti. La storia della muffetta calata nel bordello
ungherese era un evergreen intramontabile. Che poi a ripensarci chissà dove
diavolo l’avevamo pescata una fottuta muffetta. Mi ricordo che si chiamava
Rusty e che aveva avuto un’infanzia difficile, sua madre era una scopa e suo
padre un cavallo pezzato della Bavaria. Cresciuto in condizioni disagiate,
Rusty si era trasferito a Budapest per cercare fortuna nel campo dello spettacolo.
In effetti ebbe un periodo di celebrità quando venne scritturato per la
pubblicità di una nota marca di cioccolata, ma finita quell’esperienza non
seppe reinventarti e così finii, come molti, preda di un lavoro inutile la
mattina, come lustra scarpe alla stazione, mentre la sera intratteneva i
clienti del St.Papper, il club più trasgressivo di Budapest, girando su una
minimoto con una bandiera ungherese appesa all’argano. Per quel numero si era
guadagnato il soprannome di smosciacazzi. Rusty, magnifica muffetta con alle
spalle una storia intensa come solo quelle dei marinai storpi.
“Te ne devi andare”
“Perchè ?”
“Tu lo sai”
“No, non lo so.”
“Allora te ne devi andare per capirlo”
“Devo andarmene per capire perchè me ne devo andare ?”
“Sì.”
“Ma non ha senso...”
“Vattene..”
Era inutile starne a parlare, è spesso inutile parlare, così
tirai un sospiro accondiscendente e dissi solo: “Va bene, ok.”. Il giusto
indispensabile, conciso, breve, secco.
Il portone era formato da due porte distinte ma entrambe
stavano per chiudersi.
Si stavano chiudendo.
Si erano quasi chiuse.
Ancora un sospiro.
Chiuse.
Faceva freddo per la strada. Una di quelle strade parallele
del cazzo cui nessuno fa caso, neanche i tassisti, almeno fino a quando non ci
capitano.
Non avevo meta, avevo dieci dollari in tasca e portavo un
paio di occhiali da sole che costavano la metà dei soldi che avevo. Ai piedi
due anfibi, addosso dei jeans strappati oltre qualsiasi moda potesse esserci, a
meno che la povertà facesse ancora moda o l’avesse mai fatta. Sopra portavo un
blazer lungo, grigio e sgualcito che copriva una canotta con la scritta
shamless, regalo inconsapevole dell’ultima regina che mi aveva aperto le gambe
appena prima di chiudermi la porta in faccia. Maledetti corsi di chimica applicata.
Non penso che potrò andare avanti con la narrazione senza
soffermarmi prima sui miei occhiali. Non erano un cazzo di niente eppure mi
conferivano un’aria da duro da cinque dollari e un tot che non avrei avuto
neanche rovesciando il drink a Dio mentre questi si bullava a un convegno di
liceali arrapate sulla sua capacità di rifornire di alcolici il mondo.
Passai dal panettiere e comprai una birra. Passai a un bar e
presi del vino. Passai in un negozio spacca prezzi e presi una bottiglia di
whiskey, una di vino in offerta e una di birra che mi lanciarono. Una matrioska
di alcolismo, in sostanza. “Senza sacchetto, prego”, intimai al cimicianga che
mi stava servendo.
Proseguii per la mia strada. Bevendo e, di tanto in tanto,
fumando.
“Chi cita Neruda, chi Baricco. Nessuno cita mai se stesso, c’è
troppo umiltà nel mondo. Tutti a parlare di cazzate, nessuno a citare mai il
proprio cazzo e dire che di arie questo argano rosa ne regala quasi a ogni
respiro. Il cazzo è l’unico amico che conosca che non ha mai avuto paura di
sputare in faccia a nessuno e questo è tutto il carattere che cerco nel mondo
di oggi, scusate se è poco”.
Riflessioni, passi, sguardi d’intesa con barboni o forse
erano solo ex rockstar tornate per un bis di troppo.
Passai Bloomberg, il quartiere degli ebrei. Mi chiesero una
libbra di carne, accettai in cambio di un trapianto di fegato, mi dissero che
mi avrebbero fatto sapere. Non li avrei più sentiti, lo sapevo.
Passai per St. James Street il quartiere dei neri dove
viveva il mio più caro amico nonché agente. Paul Jager era un agente, il mio
agente, più di nome che di fatto, l’ultimo lavoro che mi aveva trovato era
scaduto nella seconda metà degli anni ’90, poi era stato un lento declino, io
cinico e stronzo, sempre a fare quello difficile da conquistare e lui con la
sua mania di...a dire il vero non aveva nessuna mania in particolare, era
un’anima triste e pia come tutti noi, in realtà era solo uno sfigato. Una volta
nel suo ufficio si stava smanettando, quando la riunione che lui pensava si
sarebbe svolta un’ora più tardi gli sfondò l’ufficio con un’ora d’anticipo.
Quella riunione doveva decidere le sorti della trasposizione cinematografica
del libro che mi aveva portato alla ribalta “Vita: un misto di seghe e
aragoste”. Il buon Paul preso di soprassalto nell’apice del suo smanettamento
era venuto sui piedi della direttrice dell’Unreal Picture. Non ho mai visto una
donna schizzare fuori da un ufficio così in fretta e al contempo depennare due
nomi da una lista “gente gradita” per aggiungerli ad un’altra “maledetti
stronzi”. Ma era successo ed era comunque un primato. Bicchiere pieno,
bicchiere vuoto e poi vieni sulle scarpe di chi ti dà da mangiare, questa è una
vita ben spesa.
“Jacky”
“Eiaculator”
“Ancora con questa storia. Sai benissimo che in quei momenti
c’è una situazione di non ritorno oltre la quale per l’appunto non ritorni”
“Certo, certo, ma è insolito che questa fase arrivi ben
sette secondi dopo aver iniziato a menarselo”
“Ero stressato”
“Adesso si dice così, Pollicino ?”
“Bravo, bravo, molto maturo”
“Dai amorevole segomane mascherato, sai che sono il tuo fan
numero uno. Che mi dici, offerte di lavoro ?”
“Come ieri e ieri e ieri...e ieri...e tre anni fa...e sei
anni fa...”
“Ho capito il concetto, però cazzo quanto ostracismo per una
sega finita male”
“Oh ma no no no amico mio, lascia che ti chiarisca la
panoramica. Se fosse solo per la Unreal
Picture noi potremmo ancora lavorare con il fottuto 95%
dell’industria dell’intrattenimento”
“E scommetto che stai per dirmi il motivo per cui questo non
avviene”
“Non so Jack tu come lo definiresti uno che al party degli Oscar
viene beccato in bagno con tre delle attrici candidate al premio principale
mentre tira su delle discrete strisce di allegria dal loro buco più sacro. O
cosa mi dici di quando al festival letterario di Berlino ti sei presentato
completamente sbronzo e dopo aver molestato un nano che ritenevi fosse una
maschera in gara ad un altro padiglione, hai coniato una bestemmia che mi hanno
assicurato non esistere nella lingua tedesca e che finiva con “..Katze in
Höschen”. Lo sai cosa significa ? Significa “gatto in mutandine”, un “fottuto
gatto in mutandine.”
“Questo tuo razzismo verso i gatti raffinati non lo...”
“Ohhhh per Dio ti sei sbattuto la moglie del principale
magnate televisivo del nostro Paese e il nostro Paese è un fottuto continente”
“Ma lui era di là nell’altra stanza...”
“Questa non è una giustificazione, soprattutto perchè poi
gli hai pisciato addosso”
“A mia discolpa posso dire che il suo mi sembrava davvero un
principio di auto combustione”
“Ok, ok. E la tavoletta di ribes che hai sapientemente
infilato nel culo della pop star che voleva che le scrivessi un pezzo ?”
“Non volevo scrivere per lei”
“Tavoletta di ribes. Culo. Perchè ?”
“Vabbè allora diciamo che le colpe sono cinquanta e
cinquanta”
“Vattene”
“Dai Paul”
“No Jacky, davvero. Sono depresso, sobrio e voglio farmi una
sega guardando un cartone animato”
“C’è qualcosa di marcio in questa dichiarazione d’intenti e
non credo sia la sobrietà questa volta”
“Vattene”
“Ti chiamo dopo Sborrolo: el segator mascherado”
“Sparisci”
Richiusi la porta. Di nuovo per strada. Niente lavoro. Dieci
dollari e un tot nelle tasche. Il resto delle mie bottiglie e degli occhiali da
vero duro.
Passai per il Maple Center, il quartiere/riserva degli
indiani dell’Umbria. Avevo tanti amici con cui avevo condiviso dei viaggi
fantastici, tutti nati sul divano, svolti sul divano e terminati sul divano.
Questo era il peyote e questo il modo in cui loro vivevano la vita.
Mi squillò il telefono.
Mi ricordai subito dopo di non possedere un telefono.
Risposi.
“Ciao Papà”
“Ciao amore mio. Aspetta ma io non ho una figlia”
“Papà ogni volta fai questo scherzo”
“No davvero, io non ho una figlia.”
“Papà sto partendo”
“E dove vai ?”
“E’ questo il punto, non lo so. Mi hai sempre detto che
dieci dollari, dell’erba e la confusione erano tutto quello che serviva per un
viaggio”
“Sì ma parlavo di me”
“Papà amo il country. Amo scrivere e suonare”
“Sei mia figlia per forza”
“E bere. E fare l’amo...”
“Ok basta, credo di aver capito”
“Papà non mi perderai mai”
“Lo so. Ti ho conosciuto tanti anni fa prima che tu
nascessi. Ti ho sognato fino a quando sei arrivata e da quando ci siamo
incontrati, mi sono innamorato di te. Mi dispiace per tutto...ma ti amo”
“Anche io papà”
“Per qualsiasi cosa..”
“Questo dovrei dirlo io a te”
“Ciao Peg...fai buon viaggio”
Ero quanto mai sicuro di non avere un cellulare ma ero
fottutamente più sicuro di aver appena parlato con una figlia che per certo non
avevo.
“Ehi tu”
Mi voltai richiamato dall’insopprimibile voglia di
sotterrare con proverbi e aggettivi quella raccapricciante forma gergale che
insinua amicizia e contatto tra sconosciuti.
“Ehi tu un ca...”, non finii la frase. Una surfista
bellissima e in topless con la sua tavola sotto il braccio e una chitarra sulle
spalle mi stava sorridendo. I miei sensi di scrittore fremevano ma forse in
tasca non avevo una penna questa volta. “Sei meravigliosamente bella ma non
credo che questo ti salverà dal dovermi offrire un drink per quel Ehi tu”
“E se ti offrissi di più ?”
“Il drink serviva a questo, oltre che a placare quelle
fastidiose voci che mi rincorrono ma va bene. Senti, ecco, però sarebbe meglio
andare da te”
“Non c’è mai stata un’altra opzione”
Stavo per fare una cosa che solo i nerd più sfigati e brufolosi
comprenderanno ma non mi vergogno di dire che in quel momento mi sentivo il
Superman degli sfigati. Mi tirai un pizzicotto scarnificandomi metà braccio
sinistro, poi mi tirai un ceffone. Ero confuso ma ne era valsa la pena: non stavo
sognano. “Ti seguo”
Il tragitto non era particolarmente lungo, qualche centinaia
di metri sulla Dolorean Street, girammo sulla quinta e, passate un paio di
rotonde, prendemmo la prima a sinistra, per arrivare a una via chiusa nel
quartiere Mayhem, quello residenziale dove abitavano tossici, celebrità,
politici...insomma il 95% della popolazione coi soldi, diventato tossico per
fare soldi o per dimenticare di come li aveva fatti.
C’era una porta innanzi noi, marroncino il colore anche se
ormai tra ruggine e sgraffiate di gatti e barboni sembrava più che altro un
quadro di Francis Bacon.
“Accomodati, percorri il corridoio. In fondo troverai una
sala con delle seggiole a cerchio e un tavolo per il rinfresco, serviti pure e
aspetta Hank, sarà da te tra poco”
“Aspetta, forse ho frainteso, ma tu ed io ?”
“Chissà, forse dopo”
Normalmente avrei accettato la sconfitta, avrei lenito il
mio orgoglio con del whiskey e me ne sarei andato. Ma qualcosa dentro di me mi
diceva di rimanere e per quanto questo mi faccia apparire gay per una volta non
erano le grazie di una donna. Decisi di rimanere.
Arrivai nella stanza, guardai il tavolo del rinfresco senza
nessuna emozione e nello stesso modo lui rispose. Presi posto e aspettai che
questo celeberrimo Hank venisse da me.
Paura ?
Ansia ?
Atarassia. O forse erano solo gli effetti della mia vita. La
sbronza della vita ci mette di più a scendere e non intacca il fegato ma il....
Cinque minuti.
Dieci minuti.
Mezz’ora
“Ciao”
All’improvviso quattro ragazzi che sembravano i membri di
una boy band portoricana mi salutarono in coro
“A voi”
Erano in quattro. Il primo e più basso aveva una barba
curata, come l’abbigliamento, si chiamava Sergio Miralego e vendeva macchine a
Houston, macchine per fare cose.
Il secondo si chiamava Chesky Baromboin ed era un inventore
di mestieri. Il suo curriculum era abbondantemente più lungo della Divina
Commedia ma nessuno lo aveva mai visto lavorare. Lui si giustificava dicendo di
essere un cecchino sotto copertura per conto della Polonia, anche se in realtà veniva
da Madonnina Calabra in provincia di Poggio Reale.
Il terzo era uno spilungone, si chiamava Ennio Moreno ed era
un killer di animali assoldato dalle più grosse case alimentari del mondo per
farsi concorrenza sleale tra di loro. Una volta ha ucciso un branco di mucche
pitone usando solamente dello spago da cucina, una pinzatrice e dell’aria che si
era fabbricato da solo nell’intestino.
Il quarto era il più fisicato dei quattro, si chiamava Jerry
Tuamadre ed era un italosardo ex impiegato al casello, ora pugile da luna park.
Nessuno batteva i suoi record. Nessuno si era mai neanche permesso di provarci.
E ogni volta che c’era un record da battere tutta la gente del luna park gli si
faceva intorno, lui gonfiava il petto pieno di orgoglio e urlava “chi può
farcela ?”, e tutti in coro “Tuamadre”. Bravo ragazzo, impulsivo, ma
bravo...almeno a detta dagli amici, io lo conoscevo da tre minuti e trentatrè.
“Ora tocca a te..”
“Come ?”, risposi riavutomi da quel momento no sense.
“Presentati. Chi sei, che fai ?”
Ero riluttante ma dopo aver guardato il bicipite di Tuamadre
risposi “Mi chiamo Jack Moody e sono uno scrittore. A dire il vero scrivo per
lo più poesie. E a dire ancora più il vero le poesie che scrivo derivano dalla
vita che vivo. Ho un particolare amore per la chitarra, la musica impolverata e
il genere femminile soprattutto quando è zuppo e io sono senza ombrello. Per il
resto dovrete offrirmi da bere”
“Ottima introduzione Signor Moody, ottima davvero”
“Grazie....”
“Sono Hank Chinlansky e sono il vostro...”
“Stregone”, disse Sergio scatenando l’ilarità del gruppo
mentre li fissavo basito.
“No, non sono uno stregone. Ovviamente”
“Peccato perchè sapevo una storia incredibile su uno
stregone che in realtà era un barbone che si faceva fare un pompino in cambio
di tre fagioli magici”, sentenziò per dissipare lo scetticismo generale.
“Davvero notevole. Purtroppo non sono uno stregone, io sono
un caburburu che in africano vuol dire “colui che cura l’anime delle persone a
cavallo ma anche le anime di chi non va a cavallo ma ha un animale domestico ma
anche le anime di chi non va a cavallo, non ha un animale domestico però beve
gin tonic” e questa è una seduta di alcolisti anonimi”
“A parte che io nono sono anonimo per niente”, precisai sin
da subito.
“Lo ben so Sig Moody” e mi voltò in faccia la copertina del
mio primo libro “Meglio un ubriaco famoso che un alcolista anonimo
“Noi non siamo alcolisti”, dissero in coro gli altri quattro
ma un’occhiata di Hank bastò a rimetterli in ordine.
“Allora, cominciamo. Sig Moody lei perchè pensa di essere
qui ?”
“La ragazza”
“Sesso, quindi.”
“Si suppone che dopo le carte e i disegni, con una donna
arrivi anche quel momento”
“Ah ah ah lei è proprio come i suoi libri.”
“In offerta al super mercato ?”
“Sagace e cinico. Signor Moody cosa pensa lei della vita ?”
“Risponderò alla sua sussiegosa domanda appena prima di
andarmene. Mi accesi una sigaretta, feci un occhiolino a Gesù e uno a un
vecchio cantante rock con cui avevo pippato eroina che poi avevo scoperto
essere talco mentolato.” Presi fiato e: “Ci sono due o tre cose che penso della
vita e nell’ordine sono:
1) Viviamo
un periodo storico nel quale se uno conforta il prossimo dicendogli "siamo
sulla stessa barca" l'altro gli risponde "siamo dei profughi ?"
2) Nel
frattempo in questo stesso periodo storico il senso etimologico della parola
razzista è divenuto: "individuo che ha un'opinione non qualunquista riguardo
a un qualsiasi argomento".
Siccome non c’è due
senza tre, al terzo posto le dico che l’uomo ha progettato questa vita a prova
di uomo e ora fa il nichilista perchè non sa più come riempire questo vuoto. Ha
fatto tutto da solo e si lamenta pure. Ma l’incoerenza non è certo una novità
da queste parte e per continuare...”
“Ok, ok, ottimo inizio. Ottimo”
“Ok, ok, ottimo inizio. Ottimo”
“Grazie maestra. Ma cosa centra questo coi i miei problemi
di alcolismo ?”
“E cosa centra una muffetta vestita in latex in un bordello
in Ungheria ?”
“E lei come fa a sapere della tuta in latex ?”
“Ci torneremo”
“Ci può scommettere le ghiande che ci torneremo.”
“E voi quattro invece cosa mi dite ? Che ne pensate della
vita ?”
Come al solito iniziò Sergio: “Io credo che la vita sia
fondamentalmente, in sostanza, una combinazione di obladì obladà”
Chesky invece disse: “La vita è come un’aragosta, costa un
occhio della testa, ci si mangia poco e quando sta per finire capisci che forse
non ne valeva tutta sta pena”
Fu poi il turno di Ennio: “La vita è come una donna che
ingoia. Pensi di comandare ma è lei che ti tiene per le palle”,
delicatissimo...
Infine Tuamadre che disse “La vita è come una sega. Solo
dopo essere venuto pensi “ma valeva la pena di far tanto casino ?”
“Bene, bene davvero”, commentò il Dottor Hank che poi
continuò “Scorgo nelle vostre parole una linea comune, secondo voi cosa
significa ? Anzi ho un’altra domanda, voglio, vorrei, che mi diceste la prima
cosa che vi passa per la testa”, e mi fissò.
“Cazzo, e va bene....allora Almost. Mosto. Mesto. Misto.
Masso. Matto. Atto. Tatto. Patto. Passo. Casco. Lasso. Asso. Basso. Materasso.
Satanasso. Carso. Tarso. Falso”
“Ha finito con falso”
“Leccami le palle stronzo non faceva rima”
“Già...Sergio e poi gli altri”
Senza alcun motivo apparente Sergio tirò fuori una frase più
insolita di un rutto fatto dal Papa. “Ho scoperto che spesso la vita è una
condanna peggiore eppure più onorevole della morte.”
Poi fu il turno di Ennio. “Ci sono tre bagni e mezzo e a
volte la verità sta nel pisciare in una bottiglia appena scolata”, profondo...a
modo suo.
Chesky ci e si sorprese dicendo “La vita è quello che
succede quando ti risvegli da una sbronza, vuoi scopare ma non hai una donna
così opti per una sega ma poi la rimandi e torni a bere, descrivendo al mondo
com’è quello che non stai facendo e come sarebbe potuto essere quello che non
hai fatto”.
Infine Tuamadre che ancora una volta ci commosse: “Più che
amare, brucia per una persona. Che le cose siano quello che siano, lasciale
andare...e fan culo. Sii qualcosa con qualcuno. E basta”.
“Signori sono sinceramente colpito”, si lasciò sfuggire Hank
che poi proseguii “adesso parliamo di alcolismo. Perchè bevi Jack”
“Per lo stesso motivo per cui abbracciare una donna
innamorata e abbracciare una donna che ti ama sono due lati della stessa
medaglia che tuttavia appartengono a due mondi che non si incroceranno mai”
“Perchè dici così ?”
“Potrei anche dirglielo, provarci...ma davvero, farebbe
qualche differenza ?”
“Non lo so, lo farebbe ?”
“Lei è uno di quei dottori del cazzo che lascia fare tutto
al paziente e poi lo sbatte via chiedendogli trecento dollari e il numero della
sorella ?”
“Io non sono un dottore”
“Ecco...”
Sergio si inserì nella conversazione “Credo che arrivi un
momento dell’ubriacatura dove tutto è troppo. C’è un bivio. L’arte prosegue, la
vita prosegue. L’uomo si ferma.”
“Interessante, Chesky, Ennio, Tuamadre, voi cosa ne pensate
?”
“Io credo semplicemente che un domani ci volteremo indietro
e nei nostri casini troveremo l’arte dei questi nostri giorni”, sentenziò
Chesky mentre gli altri due annuivano.
Tuamadre anticipò Ennio e aggiunse: “Ho tutto un mondo qui,
chiuso in questo pugno di carne che sussulta a istanti alternati ma non ho mai
posseduto realmente la chiave per comprenderlo. Ho pensato di sì, in certi
momenti, ma invece no”
E poi Ennio venne posseduto per un istante dall’ispirazione
e concluse: “La malinconia crea dipendenza, sai perchè ? Perchè senti che
qualcosa ti appartiene ma non ne sai il motivo”.
“Non pensavo ma siete più interessanti..di
quanto...cioè...non è facile spiegarmi”, balbettò Hank che poi si alzò in piedi
ed estrasse da dietro i pantaloni una beretta semiautomatica.
Rimanemmo tutti pietrificati e Sergio fu il primo a chiedere
a Hank il perchè. Ma certo, pensai io, una rapina, era ovvio sin dall’inizio,
come avevo potuto non pensarci...ah già, cazzo, l’alcolismo. Vabbè ormai ero
fottuto, speravo che mirasse al cuore almeno, cazzo di vanità anche nella
fine”.
Hank non disse una parola, non mosse un muscolo del viso.
Semplicemente premette quattro volte il grilletto. Sergio, Chesky, Tuamadre ed
Ennio. Quattro colpi, quattro teste esplose e quattro cadaveri, che però non
caddero a terra. Smaterializzati, scomparsi.
Iniziavo ad essere confuso.
“Sei confuso”, disse Hank risiedendosi.
“Sì”
“Lo so”
“Cazzo hai appena sparato a quattro persone”
“In realtà non ho sparato a nessuno, vedi cadaveri ?”
“Che cazzo sta succedendo ?”
“Siediti”
“Mi sedetti”
“Adesso dimmi, sei felice ?”
“Io scrivo, sono una serie di alti e bassi, rock’n’roll,
aulin e whiskey, che cazzo di domanda è ?”
“Sei felice ?”
“Sono incasinato”
“Perchè ?”
“Se lo sapessi non sarei incasinato”
“Sei incasinato perchè non dimentichi”
“Io non voglio dimenticare, non voglio andare oltre. Il
dolore mi ricorda il mio passato, mi ricorda di me”
“Scuse”
“Ma che cazzo te ne frega, che cazzo vuoi da me ?”
“Sta per finire ne sei conscio ? Lo senti il treno che arriva,
il coltello che affonda e..”
“e quello spruzzo che cola. Sì cazzo lo sento”
“Dillo”
“Cosa ?”
“Dillo ?”
“Ok baciami ma se non arrivi alle guance non te la prendere
e prova col culo”
“Smettila, dillo. Tu lo sai...che non puoi controllare i
tuoi sogni...”
“...Ma posso capire cosa mi dicono”
“Esatto”
“Esatto. Tu come facevi a saperlo, non l’ho mai detto a
nessuno”.
“Una muffetta in un bordello ? Telefonate da figlie mai
avute. Quattro cadaveri scomparsi nel nulla. Secondo te come faccio ?”
“Cazzo allora la storia dello stregone era vera, va bene ti
faccio un pompino ma io non ingoio, ti avviso.”
“Io so, perchè tu sai. Io sono te, almeno quanto tu sei me”
“Schizofrenia portami via”
“Un po’”
“Facciamola finita, passami quella pistola”
E fu allora che mi risvegliai, accorgendomi di essere
completamente ribaltato contro una panchina in un immenso prato verde fuori
dalla città dei grattacieli.
Un vecchio mi passò di fianco e prima di dedicarsi alle sue
scavatrici mi disse: “Ricorda ragazzo, la città dei grattacieli ha solo due
cicatrici ma quello è anche l’unico posto dove puoi guardare in basso”
Mi rialzai, rimisi gli occhiali e ripresi il mio
peregrinare. Ripensai a quel sogno, visione, che avevo fatto. A Sergio e agli
altri ragazzi, a Hank, il mio alter ego. A quel suo insistere, che ora sapevo
essere mio, sulle cose da dire. E poi quel vecchio con le sue parole.
Ero un fottuto pazzo che amava bere e aveva un certo talento
per scrivere e scopare. Soprattutto ero un fottuto pazzo, uno di quelli più
pericolosi, uno di quelli che hanno ancora qualcosa da dire ma non sanno mai
come dirlo e nel frattempo perdono sempre le persone a cui dirlo.
Mi lasciai cadere per terra prendendo a testate la nuda
terra finchè la mia faccia non fu un’inesauribile dispensa di inchiostro rosso
e poi scrissi quello che nessuno delle facce che ero sapeva, solo quello che
veniva fuori, così....
Sergio avrebbe scritto: “Mi chiamo Sergio
Remo ?
No
Infatti non hai la faccia da Remo
Sarà per questo che mi chiamano Sergio
Hai una bella faccia da Sergio”
Chesky avrebbe scritto: “Hai presente Schroeder, quello
delle tartarughe ninja ? Bhè a una certa ha detto basta col crimine e si è
dedicato a esperimenti più o meno scientifici. Uno di questi comprendeva un
gatto, una fiala di veleno e una scatola. Prendi gatto e fiala e sigillali
dentro la scatola. Per quanto tu ne sappia, da quando la scatola verrà chiusa
il gatto sarà sia vivo che morto e lo rimarrà fino a quando tu aprirai la
scatola influenzandone il risultato come osservatore.
Va bene ma quindi ?
L’ho risolto. E’ sbagliata la cavia.
Cioè ?
Mettici una donna nella scatola, quanto può resistere in
silenzio ? Problema risolto
Un po’ misogino,
No umbro da parte di padre.
Ma veramente..
Dov’è il mio Nobel per la fisica
Ma io
Il nobel !!!
Guarda che ....
Non lo ripeterò.”
Ennio avrebbe scritto: “La vittoria e la sconfitta delle
donne sono entrambe racchiuse nella pratica di fingere l'orgasmo”
Tua madre sarebbe stato il più sintetico: “Ho da dirti solo
due cose: vai a farti fottere.
Sono quattro
Come hai notato sono un generoso”
Restavamo in due io e la mia nemesi. Io e mio fratello. Io e
l’altra faccia della vita.
io, Jack Moody, avrei scritto: “Ecco una cosa che non ho mai
detto troppo, troppo spesso e troppo a lungo: mi manchi. Mi manca..
Figli, bottiglie,
attimi bagnati e casini, solo casini. Mai casa.”
Hank Chilansky avrebbe sicuramente scritto una roba del
genere: “Potrei farti discorsi passionali e raccontarti di storie che ti
facciano sciogliere ma entrambi sappiamo come si sciolgono quelli come noi.
Siamo chitarre nell’alba di un tramonto. Orgasmi in un mondo guardone. Urli in
mezzo a un mare che ruggisce. Ci siamo avvinghiati e sciolti e questo è quanto.
La memoria della carne, così come quella dell’anima, non svanisce mai.
Non ho promesse da farti. Non ti dirò che andrà meglio. E’
molto probabile che faremo ancora casini, ancora più casini. Ma saremo insieme,
sbronzi e passionali. E vivremo per sempre”.
La verità è che non conta che tu sia una muffetta o una
figlia vista solo in un sogno, c’è solo una cosa giusta da dire al momento di
congedarsi:
“Non ti ho mai tradito Pit, lo giuro”.
Una vita sola non basta, fan culo...
Alla mia Peggy
Fine
JL
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